Un racconto.
Il Villaggio
L’uomo si svegliò all'alba, aprì gli occhi nel momento esatto in cui i raggi del sole si posarono sulle sue palpebre.
Non perse tempo a tirarsi su dal giaciglio, sebbene per un secondo o due gli fosse balenata nella testa la seducente idea di voltarsi dall'altra parte - là dove i raggi del sole non potevano raggiungerlo - e di provare a riaddormentarsi, magari tentando di riacciuffare l’ultimo sogno, quello di cui gli stavano ancora scorrendo nella testa alcune immagini.
Mentre si mise a sedere sul giaciglio, schiudendo lentamente le palpebre in direzione dei raggi del sole, di nuovo fu assalito dai ricordi; bastava poco ad evocarli, a volte poteva essere un semplice odore, altre ancora un colore o una semplice parola. E poi, dopo, se ne restava per minuti interi fermo immobile a pensare, ancora incapace di credere che una cosa così fosse davvero potuta accadere: difficile da accettare, da giudicare credibile. Eppure, era accaduto.
Questa volta però i ricordi durarono poco, era arrivata giusto qualche immagine sbiadita, quasi sovrapponibile con quelle del sogno appena interrotto. Pensò che sarebbe stato bello se quel passato fosse stato davvero solo un sogno. Se il mondo fosse stato sempre così: semplice. E perfetto.
Mise immediatamente i piedi per terra, cercando a tentoni le sue babbucce di paglia, ma avvertì comunque il freddo del pavimento: una sensazione che gli mise addosso ancor più frenesia di prepararsi ed uscire ma che gli fece anche aumentare il nervosismo: quel nervosismo tipico del risveglio che si sentiva addosso da un po' di tempo a questa parte. Da quando, semplicemente, sapeva che ogni nuovo giorno in più era un giorno in meno che gli restava da vivere. E che, di cose, da raccontare ne aveva ancora molte.
Affinché i suoi figli imparassero, affinché nulla potesse andare perduto, affinché tutto potesse essere diverso.
I bambini lo avevano sempre ascoltato volentieri ed anche ora che erano cresciuti, divenuti due bei ragazzi forti e pieni di vita, non avevano perso il piacere di starlo a sentire quando li raccoglieva intorno a sé per raccontare, magari durante una pausa dal lavoro, o la sera, dopo la cena. I racconti del padre erano divertenti, fantasiosi, capaci di catturare l'immaginazione fino a far sbiadire i contorni del reale, capaci di emozionare e toccare nel profondo come la più bella delle favole.
Nutrivano un profondo rispetto per il loro padre, tutto quel che sapevano lo avevano imparato da lui; li aveva aiutati a crescere, a conoscere la realtà che li circondava, gli aveva insegnato i nomi degli animali e delle piante e la tecnica - rudimentale ma efficace - per coltivare la terra, così da poter avere cibo a sufficienza, in abbondanza maggiore rispetto a quanto avrebbero potuto offrire gli alberi e le piante già a loro disposizione; aveva insegnato loro a seminare, a piantare nuovi alberi da frutto, a prendersene cura, ad innaffiarli, a potarli quando era il momento, a raccoglierne i frutti quando erano maturi e poi a conservarli essiccandoli, per i mesi in cui non ci sarebbero stati. Aveva insegnato loro un mucchio di cose insomma, tutte quelle che c’era da sapere per vivere in maniera semplice, proficua e diretta dei frutti della terra. Poi gli aveva anche insegnato a costruire delle capanne e tutte quelle suppellettili di terracotta - ciotole, posate, brocche - necessarie per cucinare e mangiare; ovviamente gli aveva insegnato ad accendere dei bei fuochi e a costruire degli efficienti forni a legna in cui cuocere cibo e oggetti realizzati con la terra.
E poi ancora aveva insegnato loro a non litigare, a non sopraffarsi a vicenda per far valere le loro questioni. Più di ogni altra cosa aveva cercato di tener lontano dalle loro menti l'idea del possesso, mostrando loro come la soddisfazione e l'appagamento dati da una cosa - che fosse un comodo giaciglio o un nuovo arnese con cui giocare o lavorare - non è dato dalla proprietà esclusiva di questa cosa bensì dall'uso che se ne può fare e che l'utilizzo condiviso e comune degli oggetti avrebbe potuto rendere tutti contenti mentre, al contrario, il semplice possesso, genera solo un momentaneo appagamento, ma poi procura noia e stanchezza e causa ansia per la preoccupazione che si possa perdere o rompere o che qualcun altro possa portarlo via, scatenando litigi e insinuando il dubbio e la malafede reciproche.
Questo e tante altre cose gli aveva insegnato il loro padre sin da quando erano piccoli, bambini appena in grado di comprendere le parole che lui rivolgeva loro, appena in grado di camminare.
A volte si stupivano di quante cose sapesse fare il loro padre, si domandavano dove mai le avesse imparate, e quando. Ma forse, pensavano, semplicemente accade che diventando adulti si sappiano tante cose e basta.
Un giorno anche loro avrebbero insegnato ai lori figli quello che adesso stavano imparando.
***
Il Vecchio Mondo
Oramai l’uomo aveva smesso di domandarsi se lui, come singolo individuo, avrebbe potuto fare di più, rendendo le cose meno irreversibili di quello che poi irreversibilmente furono. E se aveva smesso di farsi questa domanda non è perché non fosse mai riuscito a trovare una risposta, ma perché, semplicemente, la risposta c'era, ed era un sì, e quel sì era diventato la sua dannazione, una dolore lancinante che ogni giorno gli ricordava chi era, chi era stato, dov'era e dov'era stato, il prezzo che aveva pagato non tanto per essere stato uno dei superstiti, ma per essere comunque soltanto uno dei pochi, forse l’unico, ad avere una visione complessiva, globale dei perché e dei percome, di quello che era successo giorno dopo giorno dall'inizio dei tempi, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, secolo dopo secolo, e fino a che non era stato ormai troppo tardi.
Ovviamente non era stato l'unico superstite, ce n'erano anche altri. Ma erano o troppo giovani o troppo stupidi per poter comprendere il senso intimo di quell'apocalisse di cui erano state vittime, o forse carnefici, senza mai davvero esserne consapevoli fino in fondo. Prima della fine i segnali c'erano stati tutti. E lui li aveva riconosciuti tutti, uno per uno. Da più parti in quel mondo in segreta agonia erano arrivate grida d'aiuto ma tutti avevano continuato, più o meno, a tapparsi le orecchie col frastuono del tran tran quotidiano, immersi nella propria egotica lattiginosa solitudine esistenziale di ectoplasmi ormai irrimediabilmente sconnessi gli uni dagli altri; per poi fingersi stupefatti e sorpresi quando ormai era divenuto tutto troppo immenso e complesso, inestricabilmente ingarbugliato, per poter essere interrotto.
E ora c'erano tutti i nuovi, i nuovi nati e quelli che stavano crescendo. Ed i suoi figli. Due ragazzi su cui riversava tutte le sue speranze per un mondo migliore. Un nuovo mondo. Che sarebbe stato totalmente e profondamente diverso dal precedente.
Quando raccontava loro le storie del vecchio mondo - quelle che loro immaginavano essere puri racconti di fantasia - spesso e volentieri una tristezza enorme gli inondava il cuore perché non riusciva a risolvere i suoi dubbi: non sapeva se sarebbe stato meglio raccontare tutta la verità nel dettagli - smettendo di fargli credere che fossero pure invenzioni, mettendoli così in guardia dai pericoli e dagli errori da cui loro, e le generazioni a seguire, avrebbero potuto stare in guardia ed imparare - lasciando così il testimone, con la speranza che venisse compreso e raccolto - o se fosse meglio continuare a trasmettergli la conoscenza e l’esperienza in maniera indiretta usando lo strategemma dei racconti, quasi rappresentassero parabole educative. Forse sarebbe stato più facile dire semplicemente la verità, raccontare tutto quel che c’era stato nel vecchio mondo, un compendio di tutta la Storia dell’umanità sin dagli inizi, ripercorrendo via via tutte le varie epoche ed i momenti salienti - certo, un manuale di Storia sotto mano avrebbe fatto proprio al caso, ma tutto era andato distrutto, ogni cosa, compresi i libri, dal più piccolo aggeggio tecnologico al più grande e complesso - fino ad arrivare, chissà come, chissà quando, e chiedendosi se avrebbero mai potuto davvero comprendere solo attraverso le parole, all’era di internet, all’era della tecnologia sempre più sofisticata, all’era del mondo prima che sparisse. Sì, sarebbe stato bello, pensava, potergli raccontare tutto, avrebbe provato un senso di liberazione infinito, ma... aveva paura. Aveva paura che i racconti di quel vecchio mondo pieno di tecnologia - che per loro sarebbe stata pura fantascienza - avessero potuto sedurli troppo, affascinarli, fino a fargli desiderare di volerlo veder realizzare. E questo lui non avrebbe mai potuto e voluto permetterlo. Perché poi sarebbero tornati, insieme ai giorni di internet, anche i giorni bui della crisi, dell’inizio della fine, i giorni di disperazione, di vuoto esistenziale, di nonsense; e poi di rabbia cieca degli uni contro gli altri e poi di follia totale; e infine le guerre, con armi sempre più sofisticate, fino a quella finale, che di quel mondo aveva decretato la fine.
Ma soprattutto, sopra ogni cosa, aveva paura che sarebbero potuti tornare i giorni che lui chiamava della cecità assoluta: i giorni dei macelli, delle mattanze, dello sterminio sistematico e senza remissione, i giorni dello sfruttamento degli animali, che lui, non aveva mai potuto comprendere, né perdonare ai suoi simili.
Lui ed i suoi figli ed i pochi superstiti ora vivevano in un mondo diverso. Non lo sa nemmeno lui come sia stato possibile, eppure c’erano riusciti, lui ed i pochi superstiti, a rifondare le basi per un mondo diverso, nuovo, infinitamente migliore. Un mondo dove l’uomo rispetta se stesso e gli altri, il proprio habitat, la natura, e gli animali. Aveva insegnato ai suoi figli il rispetto di tutto quel pezzetto di mondo - piccolo ma sufficiente ad accoglierli - che li circondava, in ogni suo aspetto. Gli aveva insegnato a non sporcarlo, ad onorarlo, così come si onora e si mantiene in ordine la propria abitazione. E più di ogni altra cosa aveva insegnato loro l'amore ed il rispetto per tutte le creature di ogni specie con cui si erano trovati a condividere l'esistenza. Si arrabbiava molto quando, per leggerezza o mancanza di attenzione, uno dei due calpestava un insetto o distruggeva una pianta, anche se involontariamente.
"La mancanza di attenzione equivale alla mancanza di rispetto", diceva.
"È prezioso, unico ed irripetibile", aggiungeva.
E poi, scuotendo piano la testa : "Voi non potete capire...” e i figli notavano sempre quell’ombra scura sul volto, come quando, a volte, raccontava quelle strane storie del vecchio mondo.
Una volta lo avevano sorpreso di nascosto, il volto trasfigurato dall’emozione e quasi a borbottare: “abbiamo una seconda occasione... sì, sì... dev'essere un miracolo... tutto... l'erba... tutto", e poi ansimando, con movimento frenetico delle braccia e delle mani, volgendo la testa prima a destra e poi a sinistra:
"l'erba... gli alberi.... mio Dio.... è così fresca, così bella.... ohh... senti che profumo... ce l'ho fatta, ce l'ho fatta, ci stiamo riuscendo... no... non accadrà più... no... no... resterà sempre così fresca e così bella.... io non permetterò che....”
Se solo avesse potuto fermare il tempo e lasciare che le cose restassero tutte com'erano, i bambini piccoli, l’umanità giovane, fresca e leggera di sogni e speranze, incapace di imprimere il suo segno più di tanto. Sapeva che le orme della gioventù sulla terra sono leggere, pronte subito a disfarsi. Temeva il passo pesante dell’età adulta, quello delle gesta irrevocabili e di una consapevolezza che non arriva mai; o sempre troppo tardi. Temeva che il mondo, ancora una volta, non avrebbe retto e si sarebbe sgretolato, come una montagna troppo fragile erosa alle pendici, che li avrebbe di nuovo travolti tutti.
Sapeva che c'era stato un punto di non ritorno; solo, non aveva capito quale, quando esattamente.
***
Presente e Futuro
I giorni trascorrevano né troppo lenti, né troppo veloci; la sera giungeva sempre opportuna ad accogliere la stanchezza della giornata trascorsa e le notti bastavano sempre: il naturale ritmo circadiano funzionava a meraviglia. Si era venuto a creare un mondo rurale in cui ognuno dava il proprio contributo in base alle proprie attitudini e capacità personali. E nessuno prevaricava nessuno.
In quanto al cibo... oh, ce n’era in abbondanza e per tutti, così come tutto ciò di cui c’era bisogno per vivere.
In quel pezzetto di nuovo mondo la terra era fertile ed i frutti crescevano rigogliosi e abbondanti, senza troppo lavoro. Gli animali vivevano liberi, non disturbavano le attività degli uomini e gli uomini non disturbavano le loro.
Da diversi anni ormai il cielo era di nuovo pulito, nitido come non mai: le albe erano luminose, il sole senza macchie e quel lieve peso dei malinconici crepuscoli era subito alleggerito dall’attesa del domani.
L’uomo era felice, come mai lo era stato nell’altra vita, in quel triste mondo antico, ormai scomparso.
Con il passare degli anni ogni suo dubbio si era diradato, infine messo a tacere: non avrebbe mai svelato la verità del vecchio mondo ai suoi figli e sapeva che anche gli altri superstiti avevano deciso altrettanto.
Più invecchiava e quel che era successo in quell’ormai lontano passato gli appariva sempre più come un sogno. O un incubo. Un incubo o un pensiero funesto da scacciare immediatamente. E, chissà, forse non era stato nient’altro che questo, un incubo da cui l’umanità si era finalmente - e dolorosamente - risvegliata.
Tutto era andato perduto, di quel vecchio mondo, ma una nuova alba aveva infine illuminato e guidato i passi dei superstiti, mostrandogli un nuovo e diverso cammino.
I raggi di questa nuova alba all’inizio furono gelidi e spietati nel mostrare tutto l’orrore della distruzione, ma ora si erano fatti di nuovo caldi ad infondere una rinnovata linfa.
Insomma, il migliore dei mondi possibili.
***
Un Giorno nel Villaggio
L’uomo si svegliò all'alba, aprì gli occhi nel momento esatto in cui i raggi del sole si posarono sulle sue palpebre.
Non perse tempo a tirarsi su dal giaciglio, sebbene per un secondo o due gli fosse balenata nella testa la seducente idea di voltarsi dall'altra parte - là dove i raggi del sole non potevano raggiungerlo - e di provare a riaddormentarsi, magari tentando di riacciuffare l’ultimo sogno, quello di cui gli stavano balenando nella testa alcune immagini.
Mentre si mise a sedere sul giaciglio, schiudendo lentamente le palpebre in direzione dei raggi del sole, gli sembrò di sentire la voce di uno dei suoi figli che proveniva dall’esterno.
In fretta si vestì per raggiungerlo, era sempre una gioia immensa salutare il nuovo giorno in compagnia dei suoi cari, facendo colazione insieme, decidendo il da farsi delle prossime ore, scherzando su qualche argomento di comune interesse.
Si sciacquò il volto con l’acqua fresca per scollarsi quel filo di sonno rimasto incollato alle palpebre, spalancò le finestra ed espirò profondamente: il cielo era di un azzurro luminoso come non mai, attraversato solo da qualche leggera nuvoletta, chissà, forse nei prossimi giorni avrebbe piovuto.
Uscì sull’uscio e vide suo figlio. Era seduto su un ciocco di legno che fungeva da sgabello, assorto nei propri pensieri, sembrava che nemmeno si fosse accorto della presenza del padre sulla porta.
L’uomo si guardò intorno chiedendosi dove fosse l’altro figlio, in genere erano sempre insieme la mattina a quell’ora perché andavano a lavorare nei campi e poi prima gli era sembrato di sentire la voce di quello che ora stava seduto e con chi altri avrebbe mai potuto parlare, a quell’ora, se non con il proprio fratello?
Poi all’improvviso, come scosso da un pensiero, il figlio si levò in piedi e la sua ombra si allungò fino a nascondere quasi - pur nella splendente luce del mattino - l’intera figura del padre che, quasi intimorito, chiese: “dov’è tuo fratello?”.
E subito, con troppa fretta, Caino rispose: “sono forse io il guardiano di mio fratello?”.
(Rita Ciatti)
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L'idea di questo racconto, compreso il titolo, è del mio compagno, io l'ho elaborata e, in itinere, ho scritto il racconto; in maniera sicuramente diversa da come avrebbe fatto lui, il quale, modestamente, ha dichiarato che lo svolgimento è migliore dell'idea; ma io non sono affatto d'accordo!
11 commenti:
"Da quando, semplicemente, sapeva che ogni nuovo giorno in più era un giorno in meno che gli restava da vivere"
Meraviglia.
Bellissimo racconto!
Accipicchia, già l'hai letto, ma sei velocissima! :-)
Grazie Volpina, tu sei la mia lettrice n.1!
Sono felice che ti sia piaciuto. :-)
Bello, il finale a sorpresa, del tutto inatteso :)
A me a volte piace fantasticare su ipotesi alternative a quelle tradizionali, circa l'origine del mondo, dell'umanità (ecc.), a parte quello che la scienza ha da dirci in proposito (e che è in fondo un raccontino scarno, molto simile al motto socratico "So di non sapere [ancora abbasanza rispetto alla nostra legittima curiosità]").
L'ipotesi degli "infiniti mondi" è comunque fra le più suggestive (si rifà a un'intuizione forse geniale di Giordano Bruno); e non è male quella che si può ricavare dal tuo racconto: gli "infiniti inizi" del mondo, come una strada che riconduce incessantemente a se stessa. Agli inizi delle cose (all'"alba") ci sembra di avere infinite possibilità davanti, infinite strade da prendere; e invece... (comunque non si tratta di "destino" - o almeno io la vedo così - ma dell'impossibilità di arrivare alla maturità senza attraversare deviazioni, illusioni ed errori. Anche ricominciando la strada mille volte...).
hahahah :D Si perchè per caso ho visto la notifica di quando lo avevi postato pochissimissimi minuti prima :D E non potevo perdermelo.
Questo periodo è deprimente, tra le mie preoccupazioni e il fatto che i miei discorsi vegan vanno a farsi benedire (e non sai che frustrazione!), leggere i tuoi post mi fa volare per un po' da un altra parte :)
racconti! Racconti! Volevo dire "racconti". :( Ho letto "post" da qualche parte e ho avuto un lapsus. Scusa!
@ Volpina
Tranquilla, puoi pure chiamarli post, a me quello che dà soddisfazione è saperli che qualcuno - come te, ad esempio :-) - li legge e dice che riesce a volare per un po' da un'altra parte. ;-)
@ Ivaneuscar
Sì, in effetti diciamo che è uno di quei raccontini che si regge tutto sul "twist ending", ossia quel che chiameremmo in italiano "finale inaspettato".
Anche a me piace moltissimo fantasticare sulle varie ipotesi del mondo, immaginare che magari ci siano state altre civiltà di cui non abbiamo trovato nemmeno una traccia, un resto qualsiasi, e che magari erano già avanti tecnologicamente (pure se la scienza lo esclude perché ritiene improbabile che non ne sia rimasta nemmeno una traccia, anche ammesso che, ipotesi assurda, si sia trattato di una civiltà come la nostra che poi si è autodistrutta con una guerra nucleare, almeno a livello geologico sarebbero dovute restare tracce).
Riguardo l'ipotesi degli infiniti inizi del mondo, come suggerisci tu, può essere che per l'umanità tutta ci sia una sorta di reincarnazione continua, almeno fino a che non imparerà dai propri errori. Un po' come si pensa debba essere della reincarnazione del singolo legata al concetto di karma.
Grazie per avermi letta. :-)
Finale a sorpresa! Bello, ci ho intravisto echi di Jack London ...
Io avrei limato qua e là un po' di più (scusa se mi permetto), ma questo racconto è un gioellino. Bella idea.
Ciao Massimo,
sì, è vero, andrebbe un po' limato (e fai benissimo a dirmelo), certi periodo sono troppo lunghi, con ripetizioni inutili. Ci ho il vizio dell'enfasi! ;-)
Mi fa piacere che ti sia piaciuta l'idea, che... come ho scritto, è del mio compagno. Lui è il vero creativo a casa. :-)
Ciao Rita. Non sapevo dove scrivertelo. ho conosciuto su internet l'associazione fata morgana, che unisce l'amore per il cinema ad un'etica antispecista. ti linko qui il sito nel caso non conoscessi l'associazione! http://fatamorgana.unical.it/
ciao!
Serena (ci siamo lette su sdrammaturgo! ^^)
Ciao Serena,
ti ringrazio per il link, non conoscevo in effetti questa associazione. Ho visto che praticamente hanno dedicato un intero numero della rivista al rapporto tra cinema ed animali, vedo se magari riesco ad acquistarlo perché ci sono vari articoli che mi interesserebbe molto leggere.
Grazie ancora! :-)
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