Questo è un raccontino che ho scritto qualche anno fa, una storia vera. Poco fa mi è tornato in mente leggendo una riflessione su un blog e così ho deciso di pubblicarlo. Non fate caso allo stile, oggi lo scriverei in maniera decisamente diversa, taglierei e limerei parecchio ed userei una prosa molto più leggera; volendo potrei rimetterci mano, ma sono pigra, ed è già tanto che questo - delle varie cosette che scrivo e che solitamente distruggo nell'arco di qualche settimana o disperdo chissà dove - sia ancora sopravvissuto. Lo pubblico qui anche per questo, infatti. Così c'è, rimane.
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Era una bella giornata di fine estate, un sabato di settembre, uno di quei giorni in cui si avverte più facilmente l’indeterminatezza del tempo, il suo impercettibile eppure sensibile fluire. Mi trovavo in quel particolare stato d'animo in cui l'autunno sempre mi predispone, inebriata dalla sensazione dell'attesa di nuove cose a venire; sebbene non si fosse ancora in pieno autunno ma solo sul finire dell’estate, ma già avvertibile era la stagione imminente da significativi mutamenti della natura e dalla temperatura in leggera diminuzione.
Quel giorno poi era cominciato come una piccola avventura: ci eravamo smarrite lungo la strada, io e Annamaria, lei che guidava la sua macchina e doveva fare da guida fino alla sua graziosa casetta in riva al lago – il luogo finale della nostra mèta – e a seguire Andrea, con la sua macchina, incerto sul da farsi, confuso dalla nostra incertezza rivelata dai rallentamenti continui e dalle varie frenate e inversioni che Annamaria faceva fare alla sua automobile, anch’essa alquanto incerta nell’espressività di una carrozzeria mal ridotta. Ma alla fine arrivammo. Era l’ora di pranzo e dopo aver fatto un breve giro per il paesino costeggiando le rive del lago finalmente parcheggiamo davanti a casa sua. Una casetta piccola ma proprio graziosa così come lei l’aveva descritta. L’ultima casetta di una via solitaria e fuori dal centro del paese, una via piccola e stretta a fare da divisione tra il lago e le estreme propaggini dell’aperta campagna. Una via di mezzo tra la campagna e il lago, e la sua casa era lì, in quella via, unico avamposto di cemento e mattoni tra la natura incontaminata. Ma non stonava quella casa di mattoni e cemento in mezzo a quell’ambiente naturale, no, sembrava anzi anch’essa un’espressione della natura, sorta quasi per magia come nelle fiabe appaiono ai viandanti notturni e alle bambine sperdute capanne e casette a far loro da rifugio o da tramite per condurle verso quei luoghi altrimenti inaccessibili del loro destino. Quella casa mi piaceva, mi piacque sin da subito e mi piacque immaginare la sua vita in quelle ore trascorse lì, lontano e al riparo dal traffico e dal caos della città. No, non era il luogo romantico per eccellenza eletto come baluardo dall’aggressione della nevrosi cittadina, non era la medicina come cura dall’alienazione della moderna automazione, niente di tutto questo… era solo una graziosa casa in riva al lago, una casa che si appoggiava sul retro alla campagna e offriva sul fronte uno sguardo diretto, attraverso le finestre della facciata, alle acque calme del lago.
Una casa così può far compagnia, sa far davvero compagnia.
Una casa così ti accoglie con il calore di un’amicizia, e in cambio chiede solo di essere rivestita qualche volta del tocco di piatti in cucina, del ticchettio di passi nelle stanze, del canto dell’acqua che scorre nei rubinetti, del chiacchiericcio sommesso di persone venute in visita. Forse non era Annamaria che quel giorno aveva bisogno di compagnia, forse era per via della sua tacita promessa alla casa che aveva voluto portarci là. E mi è quasi sembrato di vederla il giorno della sua ultima presenza là, la volta prima di noi, quando era andata sola: mi era quasi sembrato di vederla là sulla soglia, nell’atto di dare gli ultimi giri di chiave alla porta per la chiusura, strizzare l’occhio alla casa e annuirle, rassicurarla che la volta dopo avrebbe avuto qualcosa in più per lei, le avrebbe portato un po’ più di divertimento, di rumore, di parole, di passi… di VITA.
La casa aveva fatto tanto per lei, per Annamaria, l’aveva aiutata ad avere una mèta da raggiungere, ad avere un progetto di vita da perseguire, l’aveva aiutata ad occupare i suoi pensieri insomma, un po’ per via di tutte le cose pratiche da sbrigare quando si ha una casa da mantenere, un po’ per via delle giornate che aveva in mente di trascorrere là, con gli amici o sola. La casa per Annamaria era un po’ come una figlia. Si vedeva dal modo in cui ne parlava, la chiamava per nome quasi, ne parlava con orgoglio e affetto, le rivolgeva pensieri quando era distante, esprimeva preoccupazione per la sua “salute” :
- “dovrei fare dei lavori di restauro per il tetto, mi è sembrato di scorgere della macchie di umidità, non vorrei che arrivasse a piovermi in casa”;
- “che dite, pensate che dovrei riverniciare la facciata?” ci disse quel giorno non appena scendemmo dalla macchina e demmo un primo sguardo curioso alla casa di cui ci aveva tanto parlato.
Ci mese al corrente, quel giorno, dopo pranzo, di tanti progetti che aveva in mente per restaurarla, per renderla più accogliente, per sistemare il piccolo giardino.
Da come ne parlava sembrava che avesse un debito nei confronti di quella casa ma io capii che non era un debito verso qualcosa o verso qualcuno ma di semplice riconoscenza verso un’essenza la cui vitalità dipendeva da un reciproco impegno di cure e di attenzioni. Sì, di impegno reciproco si trattava. La casa si prendeva cura della solitudine di Annamaria e Annamaria si prendeva cura di quella casa silenziosa in riva al lago, di quelle stanze che a lungo erano state vuote e non avevano percepito altro che l’eco silente del loro stesso vuoto rintronante tra le spesse mura.
Penetrare nell’intimità di quella casa era come penetrare un po’ nell’intimità della sua proprietaria. Osservare il lago attraverso le sue finestre era come guardarlo per la prima volta con altri occhi, era come osservarlo attraverso lo sguardo congiunto degli occhi di Annamaria e delle finestre vigili e attente.
Pranzammo in una camera che fungeva sia da sala da pranzo che da camera da letto; il letto era infatti un divano-letto, al momento chiuso (l’avrebbe aperto la sera, al momento di andare a dormire). Annamaria disse che quando si trovava lì, nella casa al lago, la sera andava sempre a dormire presto. Dopo cena ogni tanto poteva scendere a fare una passeggiata in riva al lago, mettendosi per un attimo a sedere sulla spiaggia – un lembo di spiaggia molto stretto a dire il vero – osservando il lago, respirando aria buona, giusto il tempo che il vento arrivasse a procurare i primi brividi di freddo dell’aria serale, occasione giusta e sufficiente motivo per rientrare a casa, nell’abbraccio caldo di quella casa. In fondo era per quello che si trovava lì, no? Per la casa, per stare con lei, per trarre conforto e piacere da quelle mura così intimamente riconoscibili e sorelle.
Le chiesi, improvvisamente:
- “ma non vai mai in paese? Ho visto che c’è anche un cinema, tu ami andare al cinema, non ci vai qualche volta?”
-“no” mi disse “ non ci vado mai, mi piace starmene qui la sera, a casa, vengo apposta in fondo, per godermi la tranquillità di questo posto; al cinema ci vado volentieri quando sono in città… ma quando vengo qui no, proprio no, proprio non mi va.”
-“capisco”, dissi, ma io, pensai tra me, ci andrei la sera al cinema, sarebbe per me una vacanza ideale, una casa in riva al lago, passeggiate in riva al lago, e la sera un piccolo cinema di provincia tutto per me, magari dove danno uno di quei film per i quali non spenderei mai sette euro in città, uno di quei film che non prenderei forse nemmeno a noleggio, che so, quelle commediole sentimentali che uno può guardare solo per passare il tempo quando non ha proprio altre alternative, cinema di puro intrattenimento fine a se stesso, proprio il tipo di cinema che uno si aspetta facciano nei cinema di provincia, in fondo. E che in fondo magari ti commuovono anche un po’, film fatti apposta per questo, in fondo.
Uno a sentire quei discorsi, di lei che la sera se ne sta tutta sola a casa, si farebbe venire in mente un’idea di solitudine triste, e invece a me quella sua scelta di non uscire rafforzava l’immagine di questa unione forte con la casa, di questo muto solidale patto di reciproche cure e attenzioni. Fu per me una sensazione strana percepire quel legame tra lei e la casa, anche perché io, nel corso della mia vita, ho sempre cambiato così tante case, partecipato a così tanti traslochi dei miei genitori che davvero non sapevo come uno potesse considerare una specifica casa come le proprie inestirpabili radici. Non ho attaccamento a nessun luogo specifico, non ho mai considerato mia nessuna casa. Eppure in quel momento, quel giorno, per la prima volta potei percepire la forza di un legame, la forza di un legame che può nascere tra una persona e la propria casa. E credo fosse anche perché quella non era la sua abitazione usuale ma una casa in qualche modo “scelta” come luogo “altro”, come luogo “prescelto” che potei percepire quel legame. Un legame non scontato cioè, non banale tra una persona e il proprio luogo di appartenenza, ma nato e cresciuto e tenuto vivo in virtù di un bisogno reciproco di cure ed attenzioni. Forse un legame di questo tipo avrei potuto avvertirlo anche io, in futuro, con una qualche casa o qualche luogo: una casa o un luogo percepiti come necessari alla mia esistenza e percepibili come grati e dipendenti dalla mia esistenza, dal mio essere lì in un dato momento: un legame di amore, insomma!
Forse fu per questo, per queste mie riflessioni che continuava a piacermi così tanto quella casa, che desiderai quasi che fosse mia, io che proprio non avevo mai potuto concepire il senso di appartenenza ad una specifica casa. Sino a quel momento, forse.
Dopo pranzo accadde qualcosa di ancora più singolare. Sempre che singolari si intendano quei movimenti della mente, quelle impressioni che quasi non hanno ragione d’essere al di fuori della nostra esistenza interiore. Sono quelle impressioni in grado di produrre i più significativi mutamenti della nostra esistenza interiore, in grado di imprimere quelle accelerazioni e svolte tali da farci pensare che “siamo cambiati” ma che raramente prendono vita da un qualche evento realmente significativo o degno di venire raccontato così che all’esterno tutto appare immutato e noi tutti sembriamo starcene lì come statue immobili su un fondale di pietra, comparse di cartapesta a far da scenario al teatro del mondo, mentre tutto dentro ruota a velocità impazzita, tutto si muove e ci sembra che l’intero mondo e l’intera realtà si muova all’unisono con la nostra percezione e con le nostre sensazioni… e ci sembra che nulla, dopo, possa essere rimasto come prima, pur essendo rimasto tutto, in fondo, esattamente come prima.
Dopo pranzo, per così dire, non accadde poi nulla di così particolare.
Semplicemente, cominciando a sentirmi quasi un’intrusa nella complicità di Annamaria con la sua casa, e anche perché lei doveva parlare di “cose” legali con Andrea, semplicemente decisi di andarmene a fare una passeggiata in riva a lago. In fondo solo trenta o quaranta metri separavano la casa di Annamaria dal lago. E poi volevo godermi il calore non troppo forte di quel primo pomeriggio di fine estate (altro momento della giornata, il primo pomeriggio, che amo molto!) e magari prendere anche un po’ di sole. Feci così infatti. Arrivai in due minuti sulla riva del lago e lì mi misi seduta, sulla rena tiepida, e per un po’ osservai i riflessi del sole sull’acqua e apprezzai il vento leggero e delicato, e pensai, pensai, sognai, immaginai e ancora pensai e pensai… ah… bella l’idea del futuro. Non c’è nulla di più inebriante del pensiero del futuro, della sua semplice idea, della sua essenza quasi come presenza costante e amichevole. “Io ci sono”, sembra dirti il futuro. “Sono qui, accanto a te, ti seguirò come una presenza costante ma discreta giorno dopo giorno, a ricordarti che ci sono, che tutto è ancora e sempre possibile”. In fondo non è questa la materia dei nostri sogni? Non è di queste frasi-promesse continuamente rammentateci e ripetutaci che è intessuta la trama di ogni nostro pensiero, di ogni nostra immaginazione e sogno e aspirazione? Di cosa sarebbero fatti altrimenti i nostri pensieri senza la trama finissima del futuro? Quale forma avrebbero le nostre riflessioni senza il filo tenuto insieme dalla promessa incessante del futuro? E poi dicono che l’esistenza è fatta di memoria e del peso dell’esperienza del passato. Sciocchezze! L’esistenza è fatta di quel qualcosa sfuggente e misterioso e tuttavia sempre presente che assume le sembianze del futuro. Ed è per questo infatti che le persone anziane sono sempre malinconiche, perché non hanno più la certezza del futuro, del ritorno della primavera o anche di una nuova alba e così via. Ed è per questo che a volte ci appaiono un po’ ciniche, perché hanno smesso di sognare e di immaginare il futuro, perché senza la promessa del futuro non si può sognare nulla, né immaginare nulla. Si può solo ricordare il passato, che però produce il dolore del non-ritorno, quindi foriero di malinconia e tristezza. La saggezza degli anziani, la loro tanto decantata saggezza non è altro che la fine di ogni loro sogno e immaginazione e pensiero. Non hanno smesso di riflettere o di pensare perché ormai sono diventati saggi; al contrario, sono saggi perché hanno smesso di pensare, di sognare, di riflettere. Forse la saggezza non è altro che la fine di ogni illusione.
E così, tra un pensiero e l’altro, lasciai che il sole scaldasse indisturbato la mia pelle e lasciai che quel pomeriggio passasse così, in una calma innaturale, fino a che un brivido di freddo improvviso non mi scosse, quasi qualcuno l’avesse mandato per riscuotermi da un torpore che tuttavia faticavo a togliermi di dosso, come una sostanza che mi si fosse appiccicata addosso. Feci alcuni passi sulla spiaggia, arrivai fino alla riva e mi abbassai fino a sfiorare l’acqua con le dita. Non era tanto fredda. Volendo si sarebbe potuto fare ancora un bagno, pensai. Sicuramente c’era qualcuno che in quel periodo faceva ancora il bagno. C’erano dei piccoli pesci nell’acqua, nuotavano in branco e ne dedussi che il lago non doveva essere poi così inquinato se la gente ci faceva il bagno e se si potevano vedere i pesci nuotare vicino alla riva. Sono pensieri logici deduzioni semplici. Pensieri inutili. Eppure non si può proprio fare a meno di pensarli. Tutta la realtà è poco più di un pensiero. Le azioni sono solo giustificazioni del pensiero, una loro legittimazione; in fondo agiamo solo perché ci sentiamo in obbligo verso il pensiero, come se una volta che qualcosa è stato pensato ci esortasse ad agire per il solo fatto che è stato pensato. Ma non è così. La parte più grande e significativa di un’intera esistenza, quella in grado di assumere davvero valore per noi, è fatta di pensieri. Tuttavia un pensiero può nascere da un evento, anzi, nasce quasi sempre da un evento reale. Ed è per questo che ci confondiamo. E’ per questo che nella nostra mente crediamo che al pensiero debba seguire l’azione mentre è verissimo il contrario, ossia gli eventi, le azioni si sprigionano da sé e da lì nasce tutto, nascono i pensieri, le idee, le riflessioni, tutto ciò che un giorno avrà davvero valore nel paradigma della nostra esistenza. Conta quello che siamo e non quello che facciamo. Sebbene a volte le due cose si possano confondere.
A quel punto, dopo tali elucubrazioni, decisi di andarmene, di tornare a casa, dove Andrea ed Annamaria sicuramente avevano finito di parlare di lavoro e forse cominciavano anche a domandarsi che fine avessi fatto. E poi dovevamo pur sempre rientrare in città, fare oltre centro chilometri, non era il caso di trattenermi ancora oltre, lì su quel lago o anche a casa di Annamaria. Anzi, pensai che mi sarei proprio sbrigata ad andare a chiamare Andrea per esortarlo a partire. Annamaria sarebbe invece rimasta lì, avrebbe dormito lì nella sua casetta e l’indomani lei e la sua casa avrebbero avuto una domenica tutta per loro, una lunga e bella domenica di pace, di domestiche attività, di rinnovato patto di solidarietà tra uno sguardo che accarezza lento le pareti e il riflesso del sole che filtra di rimando, in risposta a quello sguardo, dalle finestre-occhi di una casa riconoscente e viva, resa viva da una presenza a sua volta grata e contenta di trovarsi lì e non altrove.
La stradina che mi separava dal lago alla soglia del cancello della casa era breve, saranno stati trenta o quaranta metri; era una piccola stradina sterrata, divisa in due da una strisciolina di erba. La parte calpestata, il percorso sterrato vero e proprio era di sola terra battuta mista a qualche sassolino mentre in mezzo si poteva vedere appunto una striscia disordinata di erbetta, qualche fiorellino spiegazzato qua e là, qualche radice, qualche rametto spezzato. Tutto quel che forma un sentiero di campagna battuto insomma.
Fu in quel momento, in quel preciso istante che capii. Non so se fu la forza inebriante dell’odore della terra, della campagna, del lago nelle immediate vicinanze o la semplice vista di quel sentiero, di quella terra, di quell’erba, percepibili entrambi in tutta la loro concretezza, l’odore e la vista, e forse anche il suono, in sottofondo, del vento e delle foglie e degli alberi. Non so cosa sia stato ma improvvisamente mi è apparsa in tutta la sua disarmante semplicità. Mi è apparsa quasi con la leggerezza dell’ovvietà. Una piccola ovvia banale rivelazione, una piccola “epifania” appena nata e già inquinata dal dubbio, già corrotta nella sua fresca innocenza da quell’orribile vizio tutto umano che definiamo inquietudine. Un’epifania non pura, già viziata all’origine, eppure capace di stordirmi con la forza incontaminata che le era rimasta: “E se davvero fosse tutto qui? Nient’altro che questo, solo questo, solo questa terra odorosa di buono e di umido, solo questi fili d’erba che si muovono al vento, solo questo vento e questo cielo, e questo suolo su cui sto movendo adesso i miei piedi, e solo questa mia forte consapevolezza di essere qui, ora, adesso, in un adesso che è un per sempre, che è l’effimero e l’eterno?”
Niente più passato, niente più futuro, niente più autunni, niente più crepuscoli, niente più rinascite e morti, solo questo eterno attimo di terra concreta percepita odorata ascoltata come la cosa più solida che abbia mai avuto sotto i piedi, come la cosa più calda e più piena di amore e più rassicurante che abbia mia conosciuto. La terra. La consistenza e la solidità, tutto ciò di cui ho bisogno per non sparire nelle irrequiete pieghe dell’inarrestabile movimento dell’esistenza.
E se fosse davvero tutto e solo questo, solo la sicurezza della terra che calpestiamo, del suo odore forte e penetrante? Sarebbe poco?
L’idea dell’aldilà e tutte le infinite congetture riguardo alla morte nascono nel momento in cui ci poniamo questa sciocca domanda: “ Sarebbe poco? E’ troppo poco”?
Se potessi vivere ogni giorno con la pienezza di quel momento, con la pienezza di quella terra nei suoi colori, odori, consistenza, sono sicura che potrei sconfiggere la morte.
E allora capii, capii che quella casa per Annamaria doveva avere la stessa consistenza di quella terra per me, capii che lei continuava a tornare là non per sconfiggere la solitudine, né per prendersi cura di una casa altrimenti abbandonata a se stessa, ma semplicemente per mettere finalmente a tacere le voci del dubbio, dell’incertezza, della paura. Per mettere a tacere quel vizio che ci corrode tutti nell’anima, che ci consuma istante dopo istante e ci impedisce di vedere e di sentire davvero. Quella casa dava una risposta, la risposta che lei, come tutti noi, aspettiamo. “E’ tutto qui, tutto questo”, sembrava dire, e non è poco. Sembrava prometterle l’eternità, quella casa, come a me quel giorno mi fu promessa da un granello di terra e da un filo d’erba. Nei pressi della casa in riva al lago.
Annamaria morì pochi mesi dopo. Afflitta da una terribile depressione si è lasciata morire di inedia e di fame. Andai a trovarla un’ultima volta, in una domenica pomeriggio. La notte a seguire sarebbe morta. Quando la vidi, distesa sul letto, con la mascherina dell’ossigeno sul volto, lei non era già più “qui”. Era tornata a casa, nella sua adorata casa in riva al lago. Ma noi non saremmo più andati a trovarla.
E comunque, a pensarci bene, abbiamo tutti una casa o un luogo che ci aspetta, da qualche parte.