Ieri, in tarda serata, ho iniziato a leggere l’ultimo romanzo di Stephen King, 22/11/’63, di cui ho letto commenti entusiastici in internet e su vari blog.
Stephen King è un mio vecchio amore, l’ho letto tantissimo quando ero più giovane, seguendo ogni sua pubblicazione e difendendolo sempre con accanimento dalle accuse di non essere uno scrittore serio. Che nessuno mi tocchi King! Ok, non sarà Dostoesvkij, i suoi romanzi rientreranno pure nella cosiddetta letteratura di genere e di evasione, ma questo non significa un bel niente perché le etichette sono solo delle esemplificazioni che servono a catalogare, a semplificare, appunto.
Ricordiamoci che pure grandissimi autori quali Richardson, Dickens, Poe, Lovecraft sono stati considerati in passato autori di genere, o comunque si leggevano per puro intrattenimento, tanto che molti dei loro romanzi e racconti più famosi uscivano a puntate, con la speranza di far aumentare la tiratura dei giornali, e addirittura - episodio che ho già avuto modo di citare - quando nella Londra settecentesca morì l’eroina Clarissa dell’omonimo romanzo di Richardson, pare che tutte le campane suonarono a morto e che ci fu quello che la Storia riconobbe come il primo episodio di delirio di massa legato ad un fenomeno di quella che oggi chiameremmo fiction.
Quindi, dire letteratura di evasione o di genere in sé non significa nulla. Può trattarsi di romanzi scritti bene, quanto male. E su una cosa non ho dubbi: King scrive da Dio (stavolta scritto con la D maiuscola), è un vero narratore capace di trasportarci dopo solo poche righe, ma che dico, solo dopo tre parole, dentro l’atmosfera, i luoghi, la testa dei personaggi della storia che sta narrando e come descrive lui l’inquietudine di certi posti, la malìa di certi ambienti, il progressivo avvicinarsi del Male e i pensieri e poi quel mondo spensierato e pieno di presagi di cose a venire - fatto di pomeriggi assolati che diventano palpabili, assaporabili, odorabili, visibili tanto da poterli sentire e parteciparvi con tutti i sensi, sì che la lettura di ogni suo romanzo è sempre un viaggio vero e proprio - ecco sì, come descrive lui e come sa narrare le storie, beh, poche chiacchiere perché pochi altri sono capaci di farlo.
E a chi dice che però i suoi romanzi non possono rientrare a pieno titolo nella letteratura alta perché mancano di simbolismi profondi, perché non contengono metafore capaci di sollevarli dal mero dato narrato contingente per elevarsi a considerazioni di respiro universale, beh, io rispondo prendendo esattamente a prestito le parole di un personaggio di quest’ultimo suo lavoro: “alle volte un racconto è solo un racconto”. Ma se è un bel racconto, un bel racconto rimane.
Alle volte un romanzo è solo un romanzo, ma il piacere che ti dà la sua lettura, quel piacere ineguagliabile che solo certe grande narrazioni sanno dare, accompagnato da quella smania di saper come va a finire, di non riuscire a staccare gli occhi dalla pagina nemmeno quando questi bruciano e si sta facendo notte fonda, quel piacere di cui ogni lettore sa bene perché se non l’avesse provato almeno una volta nella vita non sarebbe mai divenuto un lettore (e sempre quello stesso piacere si finisce per ricercare ogni volta, come una droga fantastica provata una volta e da allora sempre ricercata), quel piacere che poi, nei momenti in cui si è costretti a mettere via il libro (per riposare, per lavorare, per uscire, per farsi la doccia ecc.) diventa pienezza dentro al cuore, dapprima presenza silente che accompagna e poi urgenza sempre più invasiva da spingere al desiderio di correre a casa, afferrare il libro, aprirlo alla pagina interrotta, buttarsi sul letto, o sul divano o dove si preferisce e dimenticare tutto, ecco, quel piacere vale da solo a confermare la validità di un romanzo, che sia alta letteratura o solo puro - immensamente piacevole - intrattenimento, poco importa. Ed ogni lettore che ami davvero leggere, proprio l’atto del leggere intendo, del dimenticare tutto, del far sparire le quattro pareti della stanza in cui si è rinchiusi, dell’essere catturati dalle pagine quasi fosse la tela di un ragno e di morirvi dentro, tra le spire di una storia dalla quale non si riesce a staccarsi, non può non essersi confrontato almeno una volta con questo tipo di letteratura.
Ecco, la maggior parte dei romanzi di King regalano esperienze di questo tipo.
E l’ultimo, 22/11/’63, iniziato ieri sera, si è letteralmente impadronito di me.
Ora non dirò molto, mi riprometto di tornarci sopra quando l’avrò finito - per il momento sono arrivata circa a pag. 225 ed è un tomo di 768 pagine, quindi si può dire che sia praticamente solo all’inizio dell’avventura - per quanto già dentro anima e corpo - eh sì, anche con il corpo perché poi quando si inizia a leggere un romanzo così non si riesce, letteralmente, ad alzarsi dal divano e si finisce per restare invischiati, risucchiati in questa sorta di sospensione ed astrazione dalla realtà vera che, necessariamente, è da intendersi anche fisicamente -, ma intanto però qualche considerazione interessante (alla faccia di quelli che dicono che i romanzi di King sono banali); la trama in fondo è semplice (il che non vuol dire che lo sia poi la storia con tutta la narrazione degli sviluppi, implicazioni, conseguenze, rapporti di causa-effetto ecc., ed un buon narratore è tale solo quando sa orchestrare un intreccio che abbia poco di meccanico, di automatico, ma risulti organicamente coerente alla struttura stessa del romanzo): siamo nel 2011 ed il gestore di una tavola calda rivela ad un suo cliente, un insegnante di letteratura, un incredibile - letteralmente incredibile - segreto. Nella dispensa della tavola calda esiste una sorta di portale invisibile che permette, attraversandolo (o meglio, scendendo alcuni scalini, e come è descritta magnificamente la sensazione proprio fisica del passaggio), di tornare indietro nel tempo, esattamente al 9 settembre del 1958. In sintesi, sorvolando su tantissime cose che accadranno, colpi di scena e stupori, riflessioni vari, il gestore della tavola calda, malato di cancro ai polmoni ed ormai prossimo alla fine, chiede a Jake, il protagonista, l’insegnante di letteratura, di fare quello che lui, purtroppo, non avrà tempo di fare: ossia tornare nel ’58, attendere fino al ’63 ed impedire che Kennedy venga ucciso perché questo cambiamento nella Storia a sua volta impedirebbe l’accadere di tanti altri fatti e probabilmente contribuirebbe a salvare molte altre vite, oltre a quella del Presidente stesso. Ovviamente a queste conclusioni ci si arriva tramite una serie di ragionamenti e dettagliati riferimenti alla storia americana del periodo.
Da questo punto il romanzo è un vero e proprio tuffo nelle atmosfere della fine degli anni cinquanta, con tanto di dettagli, slang, descrizioni degli abiti, pettinature, automobili, case, strade, paesi, paesaggi, insomma, tutto ciò che serve a restituire al lettore il sapore di quel periodo e della sua cultura popolare, di quella spensieratezza ed ingenuità (e quando passa a descrivere il sapore pieno della birra di allora o della barretta di cioccolata davvero viene da schioccare la lingua sul palato), con toni quasi nostalgici derivati dalla consapevolezza di un mondo, tutto sommato, più semplice e facile da vivere.
Comunque, senza divagare ulteriormente e sintetizzando al massimo (perché comunque oggi non volevo parlare del romanzo in sé, non essendo appunto arrivata nemmeno alla metà), ad un certo punto accade che il protagonista si rende conto che la possibilità di cambiare il passato implicherebbe poi conseguenze sul futuro, conseguenze del tutto imprevidibili (il futuro è sempre quindi condizione imprevedibile, pur provenendo dal futuro stesso rispetto al 1958 perché conoscere il passato e volerlo, potendo, cambiare - e vedremo che comunque non sarà nemmeno così facile perché il passato non vuole essere cambiato - ci troveremmo di fronte ad un’imprevedibilità di conseguenze ed eventi scaturiti dal cambiamento stesso: mentre ora sappiamo esattamente cosa è accaduto negli anni cinquanta ad oggi, modificando alcuni eventi di quegli anni si modificherebbe tutto il resto) e che, maggiore è la portata dell’evento che si intende cambiare nel passato, maggiore sarebbero le conseguenze e reazioni a catena che giungeranno a formare il futuro. E fin qui, nulla da eccepire, mi pare ovvio.
Quel che è interessante, pur non essendo affatto un argomento nuovo, è la riflessione intorno alla teoria del cosiddetto “Effetto Farfalla” (proprio su questo argomento è stato realizzato anche un film molto interessante che si intitola proprio The Butterfly Effect, del 2004, di E. Bress e J. Mackye): in pratica, ogni minimo evento, anche il più insignificante quale lo sbatter d’ali di una farfalla, potrebbe, a distanza di settimane, mesi, o anni, avere conseguenze di un qualche tipo magari dall’altra parte del mondo.
Nel romanzo di King tutto ciò è ben presente sin dall’inizio nella mente del protagonista: egli sa che il tornare indietro nel tempo e anche solo il rivolgere la parola ad un passante (rallentandone il cammino, inducendolo a fare delle riflessioni, facendogli venire in mente qualcosa o chissà in quale altro modo) devia in qualche modo il corso degli eventi così che il futuro - ossia il presente in cui si trova adesso, il 2011 - potrebbe essere impercettibilmente o anche significativamente diverso da quello che è oggi.
Quindi dilemmi a non finire, preoccupazioni (potrebbe anche, mutando il passato, far sparire il locale in cui si trova il portale per tornare indietro nel tempo) e, soprattutto, l’idea di voler cambiare non solo quell’evento cardine della storia americana, ossia impedire l’assassinio di JFK, ma anche la storia personale di alcune persone che conosce e che... non hanno avuto una bella vita a causa di un evento che, lontano nel tempo, causò loro una serie di conseguenze devastanti. Tutto ciò però, ossia anche la più minima azione, sconvolge e cambia totalmente le cose. E inoltre ogni volta che si ritorna al presente e poi si decide di tornare ancora al 1958, tutto si annulla e si deve ricomiciare da capo perché è come se nulla fosse mai stato cambiato.
Ora, romanzo di King a parte, ripeto, affascinantissimo, trovo particolamente interessante questo concetto dell’effetto farfalla ed oggi ho pensato (non per la prima volta in verità) a quanto ognuno di noi, anche con la più piccola ed apparentemente personalissima ed insignificante decisione, influisca invece sul corso degli eventi del mondo intero. Mi spiego meglio: apparentemente, se io oggi resto in casa oppure invece decido di uscire, questo dovrebbe non aver alcun valore se non per me, nella mia vita (o al massimo di quella di chi mi sta vicino), ma al mondo intero... che gliene importa? Di fatto nulla. Eppure avete mai pensato quanto invece la vita di ognuno di tutti noi sia impercettibilmente connessa con quella di tutto il resto del mondo e quanto da ogni nostro singolo passo potrebbero derivare una serie di conseguenze inimmaginabili? Uscendo di casa io incontro persone, magari mi fermo a parlare con delle persone, sorrido a o saluto alcune persone, quindi ritardo o anticipo altri gesti e, in ogni caso, metto in moto una serie di impercettibili eventi; e così ognuno di noi. Siamo tutti in movimento, tutti contribuiamo a mandare avanti il meccanismo nascosto degli eventi del mondo, tutti contribuiamo a far girare le rotelle di uno sconosciuto motore, anche quando ce ne restiamo tranquillamente a casa a poltrire sul divano (e a leggere S. King, come sto facendo io da ieri sera).
Non è terribile e meraviglioso tutto ciò? Questa consapevolezza di essere parte di un tutto, di determinare con i nostri piccoli movimenti - sebbene movimenti infinitesimali rispetto agli eventi grandiosi che hanno segnato la Storia - tutta una serie di azioni e di conseguenze che faranno, saranno il futuro del mondo intero.
Io ci ho pensato spesso. Ma attenzione, non in un’accezione destinica, nel senso che tutto si mette in moto affinché si realizzi un disegno, ma proprio nella sola ed unica accezione deterministica di rapporto di causa-effetto, anche a distanza, seppure provocato da impercettibili ed infinitesimali movimenti e piccole azioni del nostro ordinario quotidiano.
Beh, pensateci. E’ una sensazione meravigliosa e terribile al tempo stesso.
Il mio futuro, la mia vita, magari il futuro del mondo intero, è la somma di tutti noi. Che tu oggi, o io, o altri, usciamo di casa o meno, fa una differenza. Che io ora sia qui a scrivere anziché fuori... Tutto ha un peso, tutto significa, anche lo sbatter d’ali di una farfalla.
Stephen King è un mio vecchio amore, l’ho letto tantissimo quando ero più giovane, seguendo ogni sua pubblicazione e difendendolo sempre con accanimento dalle accuse di non essere uno scrittore serio. Che nessuno mi tocchi King! Ok, non sarà Dostoesvkij, i suoi romanzi rientreranno pure nella cosiddetta letteratura di genere e di evasione, ma questo non significa un bel niente perché le etichette sono solo delle esemplificazioni che servono a catalogare, a semplificare, appunto.
Ricordiamoci che pure grandissimi autori quali Richardson, Dickens, Poe, Lovecraft sono stati considerati in passato autori di genere, o comunque si leggevano per puro intrattenimento, tanto che molti dei loro romanzi e racconti più famosi uscivano a puntate, con la speranza di far aumentare la tiratura dei giornali, e addirittura - episodio che ho già avuto modo di citare - quando nella Londra settecentesca morì l’eroina Clarissa dell’omonimo romanzo di Richardson, pare che tutte le campane suonarono a morto e che ci fu quello che la Storia riconobbe come il primo episodio di delirio di massa legato ad un fenomeno di quella che oggi chiameremmo fiction.
Quindi, dire letteratura di evasione o di genere in sé non significa nulla. Può trattarsi di romanzi scritti bene, quanto male. E su una cosa non ho dubbi: King scrive da Dio (stavolta scritto con la D maiuscola), è un vero narratore capace di trasportarci dopo solo poche righe, ma che dico, solo dopo tre parole, dentro l’atmosfera, i luoghi, la testa dei personaggi della storia che sta narrando e come descrive lui l’inquietudine di certi posti, la malìa di certi ambienti, il progressivo avvicinarsi del Male e i pensieri e poi quel mondo spensierato e pieno di presagi di cose a venire - fatto di pomeriggi assolati che diventano palpabili, assaporabili, odorabili, visibili tanto da poterli sentire e parteciparvi con tutti i sensi, sì che la lettura di ogni suo romanzo è sempre un viaggio vero e proprio - ecco sì, come descrive lui e come sa narrare le storie, beh, poche chiacchiere perché pochi altri sono capaci di farlo.
E a chi dice che però i suoi romanzi non possono rientrare a pieno titolo nella letteratura alta perché mancano di simbolismi profondi, perché non contengono metafore capaci di sollevarli dal mero dato narrato contingente per elevarsi a considerazioni di respiro universale, beh, io rispondo prendendo esattamente a prestito le parole di un personaggio di quest’ultimo suo lavoro: “alle volte un racconto è solo un racconto”. Ma se è un bel racconto, un bel racconto rimane.
Alle volte un romanzo è solo un romanzo, ma il piacere che ti dà la sua lettura, quel piacere ineguagliabile che solo certe grande narrazioni sanno dare, accompagnato da quella smania di saper come va a finire, di non riuscire a staccare gli occhi dalla pagina nemmeno quando questi bruciano e si sta facendo notte fonda, quel piacere di cui ogni lettore sa bene perché se non l’avesse provato almeno una volta nella vita non sarebbe mai divenuto un lettore (e sempre quello stesso piacere si finisce per ricercare ogni volta, come una droga fantastica provata una volta e da allora sempre ricercata), quel piacere che poi, nei momenti in cui si è costretti a mettere via il libro (per riposare, per lavorare, per uscire, per farsi la doccia ecc.) diventa pienezza dentro al cuore, dapprima presenza silente che accompagna e poi urgenza sempre più invasiva da spingere al desiderio di correre a casa, afferrare il libro, aprirlo alla pagina interrotta, buttarsi sul letto, o sul divano o dove si preferisce e dimenticare tutto, ecco, quel piacere vale da solo a confermare la validità di un romanzo, che sia alta letteratura o solo puro - immensamente piacevole - intrattenimento, poco importa. Ed ogni lettore che ami davvero leggere, proprio l’atto del leggere intendo, del dimenticare tutto, del far sparire le quattro pareti della stanza in cui si è rinchiusi, dell’essere catturati dalle pagine quasi fosse la tela di un ragno e di morirvi dentro, tra le spire di una storia dalla quale non si riesce a staccarsi, non può non essersi confrontato almeno una volta con questo tipo di letteratura.
Ecco, la maggior parte dei romanzi di King regalano esperienze di questo tipo.
E l’ultimo, 22/11/’63, iniziato ieri sera, si è letteralmente impadronito di me.
Ora non dirò molto, mi riprometto di tornarci sopra quando l’avrò finito - per il momento sono arrivata circa a pag. 225 ed è un tomo di 768 pagine, quindi si può dire che sia praticamente solo all’inizio dell’avventura - per quanto già dentro anima e corpo - eh sì, anche con il corpo perché poi quando si inizia a leggere un romanzo così non si riesce, letteralmente, ad alzarsi dal divano e si finisce per restare invischiati, risucchiati in questa sorta di sospensione ed astrazione dalla realtà vera che, necessariamente, è da intendersi anche fisicamente -, ma intanto però qualche considerazione interessante (alla faccia di quelli che dicono che i romanzi di King sono banali); la trama in fondo è semplice (il che non vuol dire che lo sia poi la storia con tutta la narrazione degli sviluppi, implicazioni, conseguenze, rapporti di causa-effetto ecc., ed un buon narratore è tale solo quando sa orchestrare un intreccio che abbia poco di meccanico, di automatico, ma risulti organicamente coerente alla struttura stessa del romanzo): siamo nel 2011 ed il gestore di una tavola calda rivela ad un suo cliente, un insegnante di letteratura, un incredibile - letteralmente incredibile - segreto. Nella dispensa della tavola calda esiste una sorta di portale invisibile che permette, attraversandolo (o meglio, scendendo alcuni scalini, e come è descritta magnificamente la sensazione proprio fisica del passaggio), di tornare indietro nel tempo, esattamente al 9 settembre del 1958. In sintesi, sorvolando su tantissime cose che accadranno, colpi di scena e stupori, riflessioni vari, il gestore della tavola calda, malato di cancro ai polmoni ed ormai prossimo alla fine, chiede a Jake, il protagonista, l’insegnante di letteratura, di fare quello che lui, purtroppo, non avrà tempo di fare: ossia tornare nel ’58, attendere fino al ’63 ed impedire che Kennedy venga ucciso perché questo cambiamento nella Storia a sua volta impedirebbe l’accadere di tanti altri fatti e probabilmente contribuirebbe a salvare molte altre vite, oltre a quella del Presidente stesso. Ovviamente a queste conclusioni ci si arriva tramite una serie di ragionamenti e dettagliati riferimenti alla storia americana del periodo.
Da questo punto il romanzo è un vero e proprio tuffo nelle atmosfere della fine degli anni cinquanta, con tanto di dettagli, slang, descrizioni degli abiti, pettinature, automobili, case, strade, paesi, paesaggi, insomma, tutto ciò che serve a restituire al lettore il sapore di quel periodo e della sua cultura popolare, di quella spensieratezza ed ingenuità (e quando passa a descrivere il sapore pieno della birra di allora o della barretta di cioccolata davvero viene da schioccare la lingua sul palato), con toni quasi nostalgici derivati dalla consapevolezza di un mondo, tutto sommato, più semplice e facile da vivere.
Comunque, senza divagare ulteriormente e sintetizzando al massimo (perché comunque oggi non volevo parlare del romanzo in sé, non essendo appunto arrivata nemmeno alla metà), ad un certo punto accade che il protagonista si rende conto che la possibilità di cambiare il passato implicherebbe poi conseguenze sul futuro, conseguenze del tutto imprevidibili (il futuro è sempre quindi condizione imprevedibile, pur provenendo dal futuro stesso rispetto al 1958 perché conoscere il passato e volerlo, potendo, cambiare - e vedremo che comunque non sarà nemmeno così facile perché il passato non vuole essere cambiato - ci troveremmo di fronte ad un’imprevedibilità di conseguenze ed eventi scaturiti dal cambiamento stesso: mentre ora sappiamo esattamente cosa è accaduto negli anni cinquanta ad oggi, modificando alcuni eventi di quegli anni si modificherebbe tutto il resto) e che, maggiore è la portata dell’evento che si intende cambiare nel passato, maggiore sarebbero le conseguenze e reazioni a catena che giungeranno a formare il futuro. E fin qui, nulla da eccepire, mi pare ovvio.
Quel che è interessante, pur non essendo affatto un argomento nuovo, è la riflessione intorno alla teoria del cosiddetto “Effetto Farfalla” (proprio su questo argomento è stato realizzato anche un film molto interessante che si intitola proprio The Butterfly Effect, del 2004, di E. Bress e J. Mackye): in pratica, ogni minimo evento, anche il più insignificante quale lo sbatter d’ali di una farfalla, potrebbe, a distanza di settimane, mesi, o anni, avere conseguenze di un qualche tipo magari dall’altra parte del mondo.
Nel romanzo di King tutto ciò è ben presente sin dall’inizio nella mente del protagonista: egli sa che il tornare indietro nel tempo e anche solo il rivolgere la parola ad un passante (rallentandone il cammino, inducendolo a fare delle riflessioni, facendogli venire in mente qualcosa o chissà in quale altro modo) devia in qualche modo il corso degli eventi così che il futuro - ossia il presente in cui si trova adesso, il 2011 - potrebbe essere impercettibilmente o anche significativamente diverso da quello che è oggi.
Quindi dilemmi a non finire, preoccupazioni (potrebbe anche, mutando il passato, far sparire il locale in cui si trova il portale per tornare indietro nel tempo) e, soprattutto, l’idea di voler cambiare non solo quell’evento cardine della storia americana, ossia impedire l’assassinio di JFK, ma anche la storia personale di alcune persone che conosce e che... non hanno avuto una bella vita a causa di un evento che, lontano nel tempo, causò loro una serie di conseguenze devastanti. Tutto ciò però, ossia anche la più minima azione, sconvolge e cambia totalmente le cose. E inoltre ogni volta che si ritorna al presente e poi si decide di tornare ancora al 1958, tutto si annulla e si deve ricomiciare da capo perché è come se nulla fosse mai stato cambiato.
Ora, romanzo di King a parte, ripeto, affascinantissimo, trovo particolamente interessante questo concetto dell’effetto farfalla ed oggi ho pensato (non per la prima volta in verità) a quanto ognuno di noi, anche con la più piccola ed apparentemente personalissima ed insignificante decisione, influisca invece sul corso degli eventi del mondo intero. Mi spiego meglio: apparentemente, se io oggi resto in casa oppure invece decido di uscire, questo dovrebbe non aver alcun valore se non per me, nella mia vita (o al massimo di quella di chi mi sta vicino), ma al mondo intero... che gliene importa? Di fatto nulla. Eppure avete mai pensato quanto invece la vita di ognuno di tutti noi sia impercettibilmente connessa con quella di tutto il resto del mondo e quanto da ogni nostro singolo passo potrebbero derivare una serie di conseguenze inimmaginabili? Uscendo di casa io incontro persone, magari mi fermo a parlare con delle persone, sorrido a o saluto alcune persone, quindi ritardo o anticipo altri gesti e, in ogni caso, metto in moto una serie di impercettibili eventi; e così ognuno di noi. Siamo tutti in movimento, tutti contribuiamo a mandare avanti il meccanismo nascosto degli eventi del mondo, tutti contribuiamo a far girare le rotelle di uno sconosciuto motore, anche quando ce ne restiamo tranquillamente a casa a poltrire sul divano (e a leggere S. King, come sto facendo io da ieri sera).
Non è terribile e meraviglioso tutto ciò? Questa consapevolezza di essere parte di un tutto, di determinare con i nostri piccoli movimenti - sebbene movimenti infinitesimali rispetto agli eventi grandiosi che hanno segnato la Storia - tutta una serie di azioni e di conseguenze che faranno, saranno il futuro del mondo intero.
Io ci ho pensato spesso. Ma attenzione, non in un’accezione destinica, nel senso che tutto si mette in moto affinché si realizzi un disegno, ma proprio nella sola ed unica accezione deterministica di rapporto di causa-effetto, anche a distanza, seppure provocato da impercettibili ed infinitesimali movimenti e piccole azioni del nostro ordinario quotidiano.
Beh, pensateci. E’ una sensazione meravigliosa e terribile al tempo stesso.
Il mio futuro, la mia vita, magari il futuro del mondo intero, è la somma di tutti noi. Che tu oggi, o io, o altri, usciamo di casa o meno, fa una differenza. Che io ora sia qui a scrivere anziché fuori... Tutto ha un peso, tutto significa, anche lo sbatter d’ali di una farfalla.
(immagine: Giorgio Cara)