Premessa Personale
La sensazione non è nuova. Mi era già capitato altre volte. E del resto io sono quella che da bambina continuò a piangere ininterrottamente per due giorni di seguito dopo aver assistito, impotente, alla morte di King Kong (nel remake degli anni ’70) al cinema. Ma è tutto finto, non è morto davvero, non esiste nemmeno il gorilla, vedi, è un pupazzo? Continuavano a ripetermi i miei genitori, ma per me il dolore provato fu autentico e quella fu la prima, ma non l’ultima volta, che uscendo dalla sala di un cinema avrei portato con me e dentro di me parte di quel mondo di celluloide.
E non accadde solo con il cinema, ma anche con i libri, con i cartoni animati visti in tv, con le serie televisive; ricordo che quando morì Anthony di Candy Candy rimasi incredula e provai un dispiacere sordo, lacerante, come se fosse morto davvero qualcuno che conoscevo. Mia madre mi racconta che la prima manifestazione di questa totale sospensione dell’incredulità che da sempre mi accompagna quando guardo i film, leggo, vado al teatro - ed in qualsiasi altro modo possano aver preso forma l’immaginazione e la creatività umane trasformandosi in finzione - si manifestò quando ero davvero molto piccola, talmente piccola da pronunciare a malapena qualche parola e scoppiai a piangere a dirotto guardando un cartone animato in cui un agnellino veniva ucciso. E anche lì, lei mi racconta, a nulla valsero i suoi tentativi di rassicurarmi che era tutto finto e che l’agnellino non era morto davvero.
E del resto la finzione si è sempre fatta strada nel cuore degli uomini al pari di una realtà parallela, spesso sostituendosi - come valida e confortante sostituta - a quella vera, non sempre gratificante come la si vorrebbe.
Si racconta che quando Clarissa - noto personaggio dell’omonimo romanzo epistolare di Richardson uscito a puntate nella Londra settecentesca - morì, tutta la città suonò le campane a morto.
Io non ho mai guardato moltissimo la TV, però per le cosiddette serie televisive, specialmente quelle americane per ragazzi e che andavano in onda il pomeriggio o in pre-serata, ho sempre fatto un’eccezione e sono cresciuta con molte di esse, più o meno interessanti, più o meno di mio gradimento.
Negli ultimi anni, come sapete, ho smesso del tutto di guardare la TV, però quando sento parlare di qualche serie che sta avendo molto successo cerco di tenermela a mente, ripromettendomi di acquistarne - una volta che sia terminata - i cofanetti dvd delle varie stagioni.
E così i primi di dicembre io e il mio compagno - anche approfittando di una notevole offerta che c’era da Feltrinelli - abbiamo preso LOST.
A proposito di Lost
Credo che Lost non abbia bisogno di presentazioni: dico solo che è stata definita la serie più innovativa dai tempi di Twin Peaks - peraltro è stata anche la serie più costosa di tutte le produzioni televisive - ha avuto ed ha milioni di fans in tutto il mondo e la messa in onda dell’ultimissima puntata (maggio 2010) è stata un vero evento mondiale, molto di più della finale di una Championship, molto di più di qualsiasi altro evento di pubblico interesse.
E a me, com’è sembrata? Vale davvero la pena di sorbirsi sei stagioni di episodi?
La mia risposta è: sì, ne vale la pena.
È un prodotto televisivo e questo non dobbiamo dimenticarlo, ma è uno di quei rari casi perfettamente riusciti di connubio tra qualità e prodotto di consumo di massa portatore di contenuti complessi, ma resi disponibili su più piani di lettura così da essere fruibili da un pubblico più che mai variegato.
Sul piano meramente narrativo si presenta come avventura infinita in cui i colpi di scena si susseguono uno dietro l’altro e per lo spettatore più ingenuo o che non abbia voglia di scendere in profondità potrebbe anche bastare, riuscendo tuttavia a far nascere in lui l’impressione che ci sia anche altro, molto altro, sebbene non immediatamente leggibile e fruibile. Per chi vorrà e saprà invece affidarsi alla guida della miriade dei simboli, delle metafore e delle citazioni sparse un po’ ovunque, Lost potrà essere letto e dispiegato al pari di un arazzo dal disegno complesso la cui miriade di fili conduce alle solite - eternamente riproposte e mai davvero esaurite con univoche risposte - domande: ontologia del bene e del male, senso ultimo dell’esistenza, fato o casualità, fede - nella sua accezione laica, come fede nella vita, capacità di accettazione del mistero e di ciò che resta inspiegabile, ma anche nella sua accezione religiosa, come credenza in un’entità divina e in una ricerca escatologica - dissidio, ma anche forse connubio, di essa, ossia di questa “fede” (intesa in tutti i significati possibili) con la scienza, e, sopra ogni cosa, su questo immenso arazzo, l’umanità ad emergere in primo piano, l’umano in tutte le sue caratteristiche, pregi e difetti, tanto capace di compiere la più elevata e nobile delle imprese, quanto anche la più infima delle bassezze. Male e bene come assoluti che si compenetrano l’uno nell’altro e che proprio in questa compenetrazione, a partire da questa compenetrazione, si relativizzano. Esseri umani capaci di compiere le più deprecabili azioni, ma al tempo stesso capaci di perdonarsi e di concedere il perdono. Esseri umani che si rivelano attraverso le scelte che compiono, quelle che si riveleranno giuste, ma ancor più quelle sbagliate e l’emergere delle passioni e dei sentimenti che come un’onda travolgono chi ne è sopraffatto: invidia, rancore, vendetta, volontà di dominio, ma anche amore e senso profondo di solidale amicizia.
Un’isola che è come un principio in cui la Storia ha avuto inizio: quella della ricerca della conoscenza e della dualità manifestantesi ovunque, delle dieci sephirot emanazione della luce primigenia che non dovrà mai spegnersi.
Un’isola che è come una selva oscura in cui ci smarrisce (lost in inglese significa: perso, perduto, smarrito) e attraverso la quale iniziare un vero e proprio cammino di redenzione con tanto di guida al fianco (numerose le citazioni sparse: dai cunicoli, tane, pozzi, bunker sotterranei che rimandano alla tana del bianconiglio in cui scivola Alice nel Paese delle Meraviglie, al viaggio a stazioni attraverso la giungla del colonnello Kurtz di Cuore di Tenebra e di altri noti personaggi e situazioni fondanti la mitologia popolare, soprattutto americana, ma anche europea).
E questo è solo un piccolo assaggio di quello che è Lost.
Ho letto e sentito in giro che dalla quarta stagione in poi molti fans sono rimasti delusi giudicando il tutto poco credibile e un po’ troppo artificioso e che, specialmente il finale, abbia spaccato nettamente il pubblico a metà.
Beh, signori miei, quando ci si appresta a guardare una serie di questo tipo si deve poter mettere in atto un vero e proprio atto di “fede”, altrimenti detto, sospensione totale dell’incredulità, e ci si deve abbandonare all’idea di star per compiere un viaggio fantastico, unico, un viaggio oltre le “normali” coordinate spazio-temporali in cui ci troviamo a muoverci in ogni “normalissimo” giorno della nostra esistenza.
Lo spettatore deve essere in grado di lasciarsi totalmente andare affinché possa anch’egli perdersi insieme ai sopravvissuti del volo Oceanic Airlines 815 e possa, alla fine di tutto, avere la bellissima, inebriante sensazione di poter far parte della loro realtà - quale essa sia - e di poter far finalmente ritorno a casa - qualsiasi cosa significhi. La fine come inizio del tutto.
Lost è una serie che lascia dentro qualcosa e a cui non ci si rassegna all’idea di doverla lasciare andare. Si vorrebbe trattenere quei personaggi all’infinito, incapaci di accettare l’idea di non rivederli più.
Vivere insieme per non morire da soli. Questo il loro motto. Insieme a tante altre frasi, battute scherzose, soprannomi spiritosi che hanno caratterizzato ogni singolo personaggio e che sono divenuti già cult, già parte della cultura popolare.
E ieri sera, dopo che in quest’ultimo mese è come se avessi davvero vissuto in una sorta di realtà sdoppiata - quella di tutti i giorni e quella del momento in cui iniziavano ad apparire sullo schermo le prime immagini di Lost e ne venivano completamente coinvolta, emotivamente ed intellettualmente - ho provato veramente una vaga sensazione di angoscia - come scritto nella premessa, già provata altre volte in passato - all’idea di aver dovuto porgere l’ultimo saluto a tutti questi personaggi verso cui, giorno dopo giorno, episodio dopo episodio, ho iniziato ad affezionarmi. Anche a quelli apparentemente più antipatici e negativi, sebbene non ci sia un vero buono, né un vero cattivo. Ognuno di loro rivelatosi in grado di compiere azioni eroiche quanto meschine. Così come in definitiva è tutta la serie: grande, immensa, ma anche piena di tanti difetti e messaggi discutibili (le grandi opere sono tali nel bene e nel male, tanto nei pregi e valori, quandi nei difetti e dis-valori), quali ad esempio quello del continuo uso delle armi usate a scopo difensivo-offensivo - com’è tipico della cultura americana e della caccia come risorsa per procacciarsi cibo (ma, come ho detto, bisogna abbandonarsi alla sospensione dell’incredulità e suppongo che se mi trovassi su un’isola deserta, in assenza di altre risorse alimentari, forse un pesce, per sopravvivere, sarei costretta a mangiarlo anche io, anche se sicuramente farei tutto il possibile per nutrirmi solo di frutta e vegetali).
La Fine l’ho trovato fantastica, con l’unico finale davvero possibile e che, ovviamente non rivelerò.
Dunque, riassumendo, cos’è Lost? Lost è un’opera dal valore quindi polisemantico in cui - alla molteplice stratificazione di letture - si aggiunge un montaggio decisamente innovativo (almeno per una serie TV) e tutto un corredo di rimandi, simboli, metafore, citazioni (letterarie, bibliche, cinematografiche, fumettistiche, televisive), così che il tutto coinvolga e costringa lo spettatore a mettersi in gioco e a risolvere i vari enigmi e misteri che vengono disseminati di episodio in episodio, di scena in scena.
È un prodotto di intrattenimento, ma che si affida, riproponendoli in maniera originale, a tutti gli archetipi e i topoi della letteratura cosiddetta "alta".
La trama in fondo potrebbe essere riassunta in poche parole ed il bello è anche questo: il volo 815 della Oceanic Airlines (una compagnia fittizia creata appositamente a Hollywood, principalmente per Lost, ma citata anche in altri film e serie tv) decollato da Sidney e diretto a Los Angeles, precipita - spezzandosi in due - su un’isola del Pacifico e, allo schianto, sopravvivono 48 persone.
L’inizio è epico.
Inizia così l’avventura, il viaggio, l’esperienza, qualsiasi cosa sia, di queste persone che si troveranno ad affrontare più livelli di difficoltà: quello innanzitutto realistico e concreto della loro sopravvivenza su un’isola apparentemente deserta (trovare acqua, cibo, accendere il fuoco, costruire dei ripari, cercare di comunicare per far giungere i soccorsi, curare le ferite, difendersi da ed adattarsi ad una natura benigna ed ostile al tempo stesso, stringere legami, amicizie, scontrarsi con avversari e superare ostacoli di ogni tipo e genere e via dicendo), ma che poi si scoprirà essere abitata da indigeni chiamati “Gli Altri”, da un mostro di fumo nero, da animali insoliti (orsi polari su un’isola del Pacifico?) ed essere stata luogo prescelto di un progetto molto ambizioso condotto da un gruppo di scienziati di fama mondiale - denominato progetto Dharma - che aveva lo scopo di salvare il mondo.
Dai sopravvissuti - inizialmente 48 - si distinguerà subito un gruppetto di persone che poi saranno i protagonisti principali ed ognuno di loro sembra avere già - o si manifesterà poi - incontrato o avuto qualcosa a che fare con tutti gli altri, come se tra loro ci fosse già stato in qualche modo un legame invisibile - fosse stato anche un incrocio di sguardi, uno sfiorarsi le mani, un essersi rivolti la parola - e soprattutto ognuno di loro sembra essere stato “chiamato” dall’isola - l’isola, questo luogo denso e stratificato di enigmi, luogo reale ma simbolico al tempo stesso - per un motivo ben preciso: destino, predestinazione, una seconda possibilità, un percorso formativo, crescita, identità, accettazione? Cos’è l’isola e cosa farà ad ognuno e per ognuno di loro? Questo dovranno scoprirlo pian piano e noi spettatori insieme a loro.
Noi spettatori non sappiamo nulla di più e nulla di meno di quanto sappiano i personaggi. Non esiste la figura del narratore onniscente.
Jack, Hugo, Sawyer, Kate, Sun e Jin, Michael e Walt, Charlie, Claire e il piccolo Aaron, Boone, Shannon, Sayid, Bernard e Rose, il mitico John Locke, Desmond e Penny, il dolcissimo cagnone Vincent e poi altri che si aggiungeranno in seguito quali Ben, Juliet, Jacob, Richard ecc., sono dei personaggi a tutto tondo, caratteri i cui attributi caratteriali, le cui vicende biografiche ed eventi cardine del passato verranno presentati allo spettatore poco a poco, esattamente come avverrebbe nella vita reale casomai ci si trovasse a dover trascorrere del tempo (giorni, settimane, mesi, anni?) insieme a compagni di viaggio con cui ci si è trovati improvvisamente a condividere un’esperienza fondante ed importante della nostra esistenza (quale sarebbe appunto essere scampati ad un disastro aereo e finiti su un’isola deserta).
I personaggi sono degli anti-eroi, persone comunissime, né buone e né cattive, che durante la loro vita pre-isola hanno compiuto anche scelte ed azioni molto discutibili, ma mai realmente irreversibili, come nessuna azione può esserlo nel momento in cui viene elaborata, accettata, superata, perdonata.
Persone che in qualche modo sono state tradite o deluse, o che hanno a loro volta deluso e tradito, ingannato e truffato, state ingannate e truffate, persone che, letteralmente, ad un certo punto della loro esistenza, si sono perse.
Ovviamente il titolo Lost è, in questo senso, come già detto, emblematico.
Tutto viene raccontato - sia le avventure dell’isola, che gli eventi biografici dei personaggi - attraverso un sofisticato e spesso sorprendente montaggio in cui al presente si alternano flashback del passato e persino, inaspettamente, a partire dalla quarta stagione, flashforward del futuro (il primo flashforward giunge davvero memorabile ed inaspettato, irriconoscibile fino ad un certo punto) fino ad arrivare all’ultima stagione in cui addirittura si manifesteranno i cosiddetti flashsideway, ossia scene da una realtà parallela in cui - dopo una serie di complesse peripezie che hanno a che vedere con la fisica quantistica, i viaggi spazio-temporali e molto altro - l’aereo riesce ad atterrare a Los Angeles come previsto senza schiantarsi sull’isola; il fine è riuscire a trovare uno scopo e a dare un senso a tutto quello che accade e, in qualche modo, a ricongiungere le diverse linee temporali e reali con la vicenda che ha dato inizio a tutto: il volo 815 dell’Oceanic Airlines precipitato sull’isola ed i suoi superstiti.
L’isola si rivela per ognuno dei personaggi strumento efficace di elaborazione del passato e tentativo di superamento, quasi una seconda possibilità, un’opportunità di “rivelare” e portare a compimento ciò per cui sentono di essere destinati: l’essenza dell’animo di ciascuno essendo la realizzazione.
Accadrà di tutto su quell’isola in cui avvengono eventi sovrannaturali: viaggi nel tempo, allucinazioni, sogni profetici, visioni del futuro e del passato, avventure di ogni tipo, personaggi che appaiono in un modo e che l’attimo successivo si rivelano essere qualcos’altro, in un gioco continuo di approfondimento, spessore e ribaltamento del carattere di ognuno, e poi violenza, omicidi, torture, malattie, ma anche nascite, affetti che si consolidano, amicizie che si rompono ed amori che nascono o che perdurano nel tempo. Ognuno sperimenta la condizione di vittima e di aguzzino, di prigioniero e di “guardiano”, ognuno tradisce ed è tradito, ferisce ed è ferito, ed ognuno chiede scusa e perdona l’altro.
Perché Lost piace così tanto? Non è solo per l’avventura continua, per il clima di continua tensione che si viene a creare e per gli infiniti colpi di scena e misteri che si susseguono, ma è soprattutto perché - al pari delle tragedie greche dell’età di Pericle - sebbene con un linguaggio adatto ai giorni nostri e molto più “massificato”, mette in scene le umane miserie e gloria dell’umanità e tenta di rispondere alle domande che l’essere umano continua a bisbigliarsi e rimpallarsi - da orecchio in orecchio, come nel vecchio giochino del telefono senza fili - da secoli; e può accadere, proprio come nel vecchio giochino, che le risposte si perdano, si distorcano o trovino ragioni, verità e sensi diversi a seconda delle diverse epoche, ma, in fin dei conti, sono sempre quelle due o tre cose che ci interessa davvero sapere.
Lost - proprio come in ogni opera che si rispetti - tenta di dare queste risposte e lo fa in maniera avventurosa, divertente, appassionante, senza mai un calo di tensione, in maniera formalmente e superbamente innovativa, e soprattutto con la precisa volontà di coinvolgere lo spettatore e di renderlo partecipe dell’avventura stessa che si propone di raccontare.
Credo che non si debba cercare di dare un'interpretazione univoca al finale, al significato dell'isola, alle intere vicende occorse, così come non esiste una verità assoluta o un senso della vita che possano dirsi uguale per tutti. La vita non ha alcun senso, se non quello che ad ognuno di noi piacerà dargli.
Così è l'isola. Qualcosa di diverso per ognuno dei personaggi, qualcosa di diverso per ogni spettatore. Per tutti, una grande opportunità, un percorso, un passaggio, in qualche modo, obbligato.
Credo che non si debba cercare di dare un'interpretazione univoca al finale, al significato dell'isola, alle intere vicende occorse, così come non esiste una verità assoluta o un senso della vita che possano dirsi uguale per tutti. La vita non ha alcun senso, se non quello che ad ognuno di noi piacerà dargli.
Così è l'isola. Qualcosa di diverso per ognuno dei personaggi, qualcosa di diverso per ogni spettatore. Per tutti, una grande opportunità, un percorso, un passaggio, in qualche modo, obbligato.
Mi dispiace immensamente di essere arrivata alla fine. Rimpiango quella domenica in cui io ed il mio compagno, dopo aver visto la prima stagione - presa per prova - ci siamo precipitati al negozio a prendere tutti gli altri cofanetti (in offerta :-) ), con gli occhi che ci brillavano come quelli di due bambini in un magazzino di giocattoli.
E’ un atteggiamento infantile, lo so, ma non mi interessa, perché a questo serve la finzione, a farci sognare di essere altro e di vivere tante, tante altre vite. Ché una sola, a volte non basta. O a evadere dalla propria, ché a volte è fin troppo pesante.
E spero di non crescere mai in questo senso, di restare sempre la bambina che si mise a piangere quando vide morire King Kong e che ieri sera si è commossa - e un pochino disperata - per La Fine di Lost.