Cesare (Salvo Randone, eccezionale come sempre), che di professione fa lo stagnaro (termine in romanesco per dire idraulico), un giorno, mentre si trova sull’autobus, assiste alla morte di un uomo, pressapoco suo coetaneo, colto improvvisamente da un infarto. L’evento lo colpisce come una sorta di epifania: resosi conto di aver ormai trascorso buona parte della sua esistenza e di poter anch’egli morire così, di punto in bianco, decide di smettere di lavorare e di godersi il poco tempo che gli resta, tentando di riappropriarsi di quel sacro fuoco della vita che sente ormai spegnersi dentro di sé e di dedicarsi a tutto ciò che aveva trascurato fino a quel momento.
Questo il punto di partenza di uno dei migliori film di Elio Petri, riuscitissimo connubio di neorealismo ed esistenzialismo in una Roma dell’epoca, siamo nel 1962, restituita a partire da tanti piccoli dettagli ma allo stesso tempo trasfigurata oniricamente nell’ottica deformante del protagonista.
La riflessione esistenziale di Cesare diviene il pretesto per riflettere sulla condizione sociale dell’essere umano, costretto a lavorare per tutta la vita, a veder allontanarsi pian piano tutti gli affetti (cinica la figura del figlio che va a trovarlo solo per chiedergli dei soldi e che si preoccupa della decisione del padre di aver smesso di lavorare solo per paura di doverlo mantenere) per poi improvvisamente giungere al capolinea senza aver avuto il tempo di “vivere” realmente.
Dapprima si pone dunque la questione del lavoro attraverso una scissione dialettica: da una parte ci sono gli amici di Cesare che - da persone pratiche quali sono - lo intendono come mera necessità: “se vuoi mangiare, devi lavorare”; dall’altra c’è la visione esistenziale (“tu sei un esistenzialista senza nemmeno saperlo”, dice un mercante d’arte a Cesare) per cui il lavoro è visto come una sorta di condizione forzata che sottrae il tempo a ciò che realmente si vorrebbe fare e che, distraendo l’essere umano da questioni più filosofiche (“quando lavori non pensi a niente, come distrazione funziona bene”, dirà Cesare ad un certo punto), ne annulla la consapevolezza del vivere.
Il dialogo iniziale evidenzia appieno questa dicotomia: Cesare dice ad un suo amico che vuole smettere di lavorare perché ha visto un suo coetaneo morire e si è reso conto che domani potrebbe toccare a lui; “embeh, pure i neonati muoiono, allora non avresti mai dovuto lavorà”, gli risponde l’amico, come a dire: la consapevolezza della morte, del fatto che tutti siamo destinati a morire, non può essere un pretesto per non lavorare. Lavorare è una necessità dalla quale non si può sfuggire.
Cesare stesso del resto finisce per assumere una posizione ambivalente: avverte quest’esigenza profonda di recuperare il passato, ma pian piano realizza che questo recupero non è più possibile al solo prezzo dell’abbandono del lavoro. Gli amori passati, sono ormai passati ed è impossibile riaccendere vecchie passioni. Il paese natìo è ormai un cumulo di ricordi sepolti da un presente che non gli appartiene più e gli amici di un tempo a stento lo riconoscono, abbrutiti e sconsolati, di una disperazione che è disperazione del vivere, di qualsiasi vivere, a qualsiasi età.
L’arte offre ben poca consolazione, testimone anch’essa del tempo che passa.
Il tentativo di guadagnarsi da vivere ricorrendo agli impicci (truffe, piccoli affarucci illegali) richiede coraggio ed un certo spirito di avventura per il quale bisogna essere nati (e Cesare non possiede né l’uno, né l’altro).
Cosa resta allora se non rimettersi a lavorare, almeno nella certezza di non dover chiedere niente a nessuno e di ingannare così il tempo che passa attraverso la distrazione di giornate piene di lavoro?
E’ un film amaro. Amaro perché ciò che ruba il tempo all’uomo non è solo il lavoro - dal quale pure, volendo e riuscendoci, ci si potrebbe affrancare, ma che si pone comunque nel film come problematica non indifferente - ma il tempo stesso che scorre. La vita, come suggerisce la cupa scena finale, è un cammino che si snoda su un binario limitato, che ha un inizio ed una fine, ed al cui capolinea tutti giungiamo prima o poi. Certo, arrivarci senza alcuna consapevolezza alcuna, dopo una vita di duro lavoro, magari non è il massimo. Ma forse arrivarci consapevolmente è pure peggio. Il momento dell’imbocco del tunnel rimane come visione improcrastinabile ed inevitabile, tutto il resto è ciò che, in qualche modo, è trascorso. Perduto per sempre.
Una delle scene che mi ha intristita di più è quella in cui la figlia della donna presso la quale Cesare sta a pensione, ammettendo la poca voglia di lavorare, dichiara di aver speso i soldi che Cesare le aveva prestato come cauzione per ottenere un lavoro da commessa, per comprarsi una parrucca; Cesare inizialmente la rimprovera, ma poi, seppure con poca convinzione le dice: “ma sì, sì, divertiti pure”. E’ un’incitazione al divertimento connotata però da una nota di profonda amarezza perché tutto è destinato a passare, anche il divertimento. La giovane ragazza è un personaggio tragico perché ha la funzione di ricordare a Cesare quello che egli non è più, ma anche quello che lei diventerà: sono specchi reciproci in cui ognuno vede nell’altro il riflesso del se stesso che è stato o del se stesso che sarà. In entrambe le funzioni c’è il memento del tempo che scorre.
Ne I Giorni Contati questa funzione del tempo che passa - e che muta non solo le persone, ma anche i luoghi - è vividamente resa anche attraverso le riprese della città - una nouvelle vague tutta romana - vista attraverso il vagabondare di Cesare, a piedi, sui tram, sugli autobus, su una vespa (bellissima la scena in cui sale in sella ad una vespa guidata da un ragazzo e chiede di inseguire una camionetta dei pompieri: c’è molto Godard, ma per approdare ad un contesto sociale neorealistico), una città che scorre all’esterno e che diviene a tratti protagonista, ma di cui i sensi ne percepiscono anche i suoni e ne colgono i colori con una rielaborazione del tutto soggettiva.
Non è un film che però intravede una salvezza nella funzione salvifica del ricordo (che fissa il tempo), ma che anzi ne evidenzia tutta l’illusorietà.
L’aspetto che mi ha più colpita, una volta tanto, non è quello di avere tutti - come dice il titolo - i giorni contati e di essere diretti ad un capolinea inevitabile, quanto quello della questione sociale del lavoro.
Anche io penso spesso che il lavoro - così come è strutturato nella nostra società - sia più una sorta di schiavitù, di prigione ripetitiva di gesti tutti uguali che non una reale affermazione della dignità dell’essere umano. Il lavoro rende liberi, certo, nella misura in cui ti affranca dal dover chiedere l’elemosina e ti permette di mantenerti, ma un lavoro che non piace, lo svolgere di una mansione necessaria al fine di guadagnare è anche una forma di schiavitù.
Trascorrere una vita intera nella rinuncia di ciò che si vorrebbe realmente fare nell’illusione che lavorando - una volta messi da parte i soldi, ed ammesso che ci si riesca - ci si possa permettere poi di fare quello che si vuole fare, ma sempre con quel tarlo della morte che potrebbe sopraggiungere in qualsiasi momento, a me in realtà intristisce molto perché mi viene da pensare che la vita in fondo è adesso, proprio mentre stiamo lavorando e come la stiamo trascorrendo? Lavorando. E allora mi viene voglia di lasciar perdere tutto.
A meno che a uno non piaccia davvero il proprio lavoro e che trovi quelle ore degne di essere vissute.
In generale, a me fanno pena tutte quelle persone che trascorrono 10 - 12 ore in ufficio con la speranza di mettersi da parte un bel gruzzoletto per godersi la vita in un prossimo futuro o per farsi una bella vacanza all’anno; e se poi quel futuro non ci fosse? E se poi quella vacanza non si potesse più fare perché ci si ammala?
Mi viene in mente un amico di mio padre: una persona molto ricca, che aveva una grande fabbrica e che trascorreva veramente dalle 12 alle 14 ore in ufficio ed il tempo rimanente sempre in giro per banche, avvocati e clienti e attività comunque inerenti il lavoro. Una volta mio padre, vedendolo stanco, gli disse: “ma hai un sacco di soldi, ma fatti una bella vacanza, un bel viaggio, lavora meno, mettiti a riposo, goditi la vita”, e lui rispose: “sì, hai ragione, ho intenzione di continuare così ancora qualche anno, poi mi metto in pensione ed inizio a godermi la vita”. Volete sapere che fine ha fatto? A riposo ci si è messo, ma dentro una bara: morto d’infarto dopo qualche mese da quella conversazione che aveva avuto con mio padre.
Allora, prendendo spunto dal bellissimo film di Elio Petri, è come al solito una riflessione esistenziale che vi chiedo; ma anche sociale. Ferma restando l’inarrestabilità del tempo, la difficoltà di godere pienamente, consapevolmente, lucidamente ogni singolo attimo, l’amara constatazione che abbiamo tutti i giorni contati, ma non si può provare a ripensare questo concetto di società basata sul lavoro? Non sarebbe meglio lavorare tutti meno, distribuire meglio le risorse lavorative? Certo, una soluzione simile non la sto pensando certo io per la prima volta. Mi domando però perché ci debbano essere tante visioni e concezioni esistenziali differenti, perché c’è gente che non capisce che è meglio vivere ora bene, anziché domani - un domani che magari non ci sarà?
Questa visione del sacrificio oggi per un domani migliore sicuramente è stata introiettata nella gente anche dalla religione cattolica.
Secondo me è da rivedere proprio questo concetto - e parlo di rivederlo a livello profondo - sul lavoro inteso come mansione che nobilità l’uomo e fatto passare per valore assoluto.
E’ una necessità. Sì, me ne rendo conto. Ma perché dovrebbe essere anche un valore?
Il senso della mia esistenza, come diceva André Breton, io non lo trovo e non voglio trovarlo nel lavoro. Fossi stata Cesare, il protagonista de I Giorni Contati, forse avrei preferito continuare a vagabondare fino alla fine.