Finalmente mi sono decisa a vedere l'ultimo film di Kathryn Bigelow, vincitore nel 2010 di ben 6 premi oscar. Lei è una regista che ho sempre apprezzato, particolarmente per due suoi lavori, Point Break e Strange Days, che non mi stancherei mai di guardare.
Non avevo però il minimo entusiasmo di vedere The Hurt Locker, temendo fosse l'ennesimo film di propaganda filo-americana, trattando di una missione in Iraq di soldati statunitensi, specializzati nel disinnescare ogni tipo di ordigno, ed essendo io stata sempre contraria all'invasione di questo paese da parte degli Usa.
Sinceramente di guardare film in cui i soldati americani passano per essere i soliti eroi salvatori del mondo sono stanca.
Se c'è una cosa che però detesto fortemente, ancor più dei film di propaganda americana, sono i pregiudizi e le supposizioni.
Tutti probabilmente ci accostiamo al nuovo, a ciò che non si conosce, appesantiti da un fardello di pregiudizi che ci trasciniamo dietro senza nemmeno rendercene conto, in fondo è sempre dall'occhio prospettico della nostra cultura e della nostra personale scala di valori che ci accingiamo a guardare e ad osservare, falsando talvolta l’onestà di un’analisi.
E quindi, mettendo da parte i pregiudizi e con ferma determinazione di abbandonare ogni riserva mentale, alla fine ho deciso di guardare The Hurt Locker.
Ebbene, l'ho trovato un gran bel film, con tanti "se", con tanti "ma". E sono proprio questi "se" e questi "ma", probabilmente, a donargli quel valore aggiunto rispetto a tanti altri film di guerra che sono stati realizzati.
La più grande riserva mentale che personalmente ho dovuto mettere da parte è quella del presupposto su cui si basa il film perché se è vero che i protagonisti sono personaggi ben caratterizzati psicologicamente, dotati di uno spessore e di una credibilità narrativi che li rendono emotivamente vicini allo spettatore - sin dalle prime scene reso partecipe del pericolo delle loro azioni - è anche vero che viene legittimo domandarsi: "ma chi gliel'ha fatto fare a questi ragazzi di andare in Iraq?".
The Hurt Locker però è interessante proprio perché il punto di vista extra-diegetico resta totalmente assente, mettendo in scena, con un procedimento che oserei definire impressionista, l'esclusiva soggettività dei tre protagonisti.
E' come se ci trovassimo di fronte ad un documentario - con telecamere disposte a 360° intorno agli attori e con la quasi totalità delle scene girate in esterno, molte delle quali senza l'ausilio di luci artificiali, ad amplificare formalmente il realismo delle scene (e grazie alla bravura della Bigelow la sospensione dell'incredulità è tale che sembra a volte di assisterere a scene di repertorio da vere zone di guerra) - in cui l'oggetto non è tanto ciò che avviene, ma la reazione a ciò che avviene.
Una volta accettato il dato di fatto che quei soldati sono lì, lo spettatore è immediatamente catalputato nel vivo delle loro giornate, come accompagnatore silenzioso di ogni loro pericolosa azione finalizzata alla ricerca di ordigni da disinnescare. In quei lunghi istanti non c’è spazio per porsi domande sulla legittimità delle loro azioni, c'è solo la sospensione del tempo, il contrarsi dello spazio, la sovrapposizione della vita e della morte in quell'unico - determinante e definitivo - gesto in cui si decreta il successo o il fallimento dell'azione. Lo stesso avviene negli scontri a fuoco in cui, nuovamente, siamo costretti a mettere da parte ogni domanda per concentrarci nell'assoluta rilevanza di quell'attimo in cui il confine tra la vita e la morte si fa sempre più sottile. Non c'è una specifica disposizione d'animo nei tre soldati nei cofronti dei "ribelli", c'è solo l'assoluta consapevolezza di "o loro o noi".
Più che il sentimento di avere un "nemico" da combattere (sentimento che renderebbe legittimo il domandarsi appunto: "ma di quale nemico stai parlando? E perché un popolo che è stato invaso dovrebbe essere considerato un nemico, poi?"), nei protagonisti si fa strada la consapevolezza di trovarsi esposti ad un pericolo costante in un confronto serrato con la morte, di essere come pedine di un gioco in cui, ad ogni tiro di dadi, e solo per pura casualità, viene decretata la loro fine o sopravvivenza. Ed infatti i "nemici" vengono rappresentati - pur se presenti ovunque, dietro ogni angolo o dall'alto di tutti gli edifici - come stranamente immobili, nascosti dietro l'imperscrutabilità di un'espressione, i movimenti lenti od assenti, presenze astratte più che individui in carne ed ossa.
Ed è questo, in sostanza, l'aspetto interessante del film, il quale riesce a sviare l'attenzione dalla contingenza della specifica narrazione di guerra, per elevarsi ad una riflessione di portata esistenziale perché, se è vero che in zona di guerra, da soldati, a compiere un lavoro estremamente pericoloso come quello di andare a disinnescare delle bombe (legittimità o meno di una scelta di questo tipo), le probabilità di morire si alzano in maniera esponenziale, è pur vero che nessuno di noi è nelle condizioni di sapere con certezza quanto sottile possa essere il confine che separa la sua vita dalla morte. Ogni giorno.
Tutti noi, ogni giorno, usciamo là fuori nel mondo senza avere l'assoluta certezza di poter rientrare a casa. E questo lo dico senza alcuna retorica, senza alcuna visione pessimista, semplicemente come realistica considerazione.
Il personaggio più significativo in The Hurt Locker è quello interpretato dal bravo Jeremy Renner, nel film appunto il caposquadra di un'unità di artificieri - dopo che il precedente ha perso la vita in un'esplosione (quest'ultimo interpretato da Guy Pearce in un prezioso cameo; divertente che in questo film alcuni attori tra i più noti al mondo abbiano partecipato solo per un cameo, tra cui Ralph Fiennes) - la cui sventatezza del pericolo e straordinaria bravura nell'eseguire il proprio lavoro ne caratterizzano un'ambiguità di fondo. Questo personaggio contiene un'infinità di sfumature: a tratti può apparire come un pazzo esaltato, incurante della sua incolumità e di quella del resto della squadra, uno che si alimenta del pericolo, la cui ricerca di situazioni ad alto tasso adrenalinico diventa quasi una sorta di dipendenza (che è ciò che suggerisce, apparentemente almeno, anche il finale), a tratti però, da questo carattere coraggioso e di una risolutezza senza pari, affiora un profondo senso di umanità e di pietà, una disperazione e dolore dai quali, come tratto distintivo che lo accomuna ai suoi compagni di squadra, la vulnerabilità rimane come elemento predominante.
Ed è in questi tratti che si rivela anche la sua umanità, a dispetto dei comportamenti superomistici.
Ed è probabilmente proprio nella complessità e contraddittorietà di questo personaggio che ci si può azzardare ad una lettura del film, quale espressione della complessità simbolica che ogni narrazione ed esperienza di guerra porta con sé nel mettere a nudo non solo la precarietà della vita e l'illusoria certezza di poterla controllare, ma anche l'acquisizione di un senso ultimo da attribuirgli proprio in relazione al confronto serrato con la morte.
Più che un film che fa riflettere sulla guerra, a me è sembrato un film che fa riflettere sull'esistenza in generale. Ed è questo, in definitiva, a rendere The Hurt Locker un film interessante. Certo, siamo ben lontani dalla discesa agli inferi di Apocalypse Now, o dal simbolismo di Full Metal Jacket, e del resto non si denota né la minima intenzione, né la presunzione di accostarsi ai precedenti capolavori. La Bigelow, qui, più che altro, sembra interessata a riportare, nella maniera più impressionista possibile, il valore di un’esperienza.
Il mio consiglio quindi rimane quello di accostarsi a questa visione senza giudizio alcuno se non quello di natura estetica.
2 commenti:
Sì, direi un film "fotografico", uno spaccato senza velleità superflue. Girato e costruito bene.
Esatto. Un film che "fotografa" le giornate di questi ragazzi che si trovano a vivere un'esperienza "straordinaria" ("straordinaria" nel senso che esce fuori dall'ordinario).
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