Ed è vero che una volta che si decide di smettere di mangiare gli animali e si comincia a lottare per l’abolizione del loro sfruttamento in ogni settore poi comincia anche a cambiare la percezione che si ha nei confronti della società e della realtà in generale.
Prima non facevo caso ad un sacco di cose.
E’ vero che ho sempre avuto una certa sensibilità nei confronti degli animali, che sono stata sempre contraria alla vivisezione, alle pellicce, agli zoo, all’abbandono e al maltrattamento degli animali da compagnia, però, come tante altre persone, ero, senza saperlo, una specista.
Non che non mi dispiacesse per le povere mucche, vitelli, maiali, pesci che mangiavo, anzi, ho sempre ammirato i vegetariani e vegani, però semplicemente subivo questa schiacciante maggioranza di una realtà e di una società che invece considera normale uccidere e sfruttare gli animali. La subivo e ne facevo parte. Ne facevo parte non mettendola in discussione, quindi restando silente e quindi, come sempre accade quando tacendo si finisce per fare il gioco degli aguzzini, era come se anche io dessi la mia silente approvazione.
Passavo davanti ad un negozio di alimentari e vedere prosciutti appesi mi sembrava una cosa normale; passavo davanti ad un negozio di scarpe e vedere tante scarpe in pelle mi sembrava una cosa normale; mi sedevo al tavolo di un ristorante e leggere un menù ricco di piatti contenenti pezzi di animali morti mi sembrava una cosa normale.
E così per tante altre cose.
Poi a poco a poco la mia percezione delle cose è cambiata, la mia sensibilità si è acuita; non per magia e non da un giorno all’altro. E’ cambiata anche perché ho voluto che cambiasse. Ho iniziato a documentarmi, a leggere libri, a guardare video, ad approfondire certe tematiche ed argomenti. Soprattutto, ho iniziato a parlare con me stessa, facendomi un sacco di domande, portando alla luce le mie contraddizioni e la mia ipocrisia.
Prima ancora che mettere in discussione la realtà che mi circonda, forse è vero che ho iniziato a mettere in discussione me stessa.
Chi sono, cosa mi aspetto dalla vita, chi credo e pretendo di essere, quali sono i valori a cui tengo, quali quelli invece frutto magari di un’educazione conformista che potrei abbandonare perché non mi ci riconosco più tanto. Insomma, ho fatto un po’ quel che si dice il punto della situazione con me stessa, spostato equilibri, eliminato puntelli che credevo ancoràti saldamente, sfrondato rami inutili.
Un valore per me irrinunciabile, l’unico in grado davvero di condurmi ogni giorno in questa strada dell’esistenza che reputo sotto moltissimi aspetti del tutto priva di senso (non essendo io religiosa), è quello del “rispetto” del prossimo. Ma non del “rispetto” inteso in senso astratto, così tanto per dire, per principio, perché poi di questo tipo di rispetto formale nessuno sa mai veramente cosa farsene, e anche perché, secondo me, non tutti poi si meritano questo rispetto: ad esempio uno che va a caccia non merita il mio rispetto, magari lo merita per altri singoli aspetti della sua personalità, che so, perché magari un cacciatore può essere pure un bravo musicista e quindi potrei voler rispettare il suo talento da musicista, ma si tratta di un tipo di rispetto più rivolto ad una determinata caratteristica che non alla persona nel suo insieme; così come non merita il mio rispetto un vivisettore o uno che scuoia gli animali per farne le pellicce; quanto piuttosto di una forma di “rispetto” verso quello che considero un valore imprenscindibile, ossia la vita, l’esistenza propriamente fisica, a prescindere dai suoi attributi morali e psicologici. E anche qui, non nell’accezione di una “sacralità” intesa in senso religioso, che non mi appartiene, ma proprio per l’essenza stessa dell’essere vivo.
Questo valore imprenscindibile della vita lo estendo a tutti gli esseri che, appunto, vivono. Tautologico.
E quindi, confrontando le mie scelte pratiche, di tutti i giorni, con quelli che erano i miei valori, ho capito che c’erano alcune cose che non andavano, che stridevano.
Una di queste era la mia pretesa, appunto, di rispettare la vita, continuando però a mangiare gli animali o a comprare scarpe di pelle. E così, pian piano, continuando a mettere in discussione anche tante altre cose (riguardanti svariati aspetti dell’esistenza), ho cambiato abitudini, o meglio: ho adottato una filosofia di vita pratica più consona ai miei ideali teorici.
E’ un percorso - che considero virtuoso - ancora in “essere”. Si può fare sempre di meglio e sempre qualcosa in più, no?
Affermando che è cambiata la mia percezione del mondo, voglio in realtà semplicemente dire che adesso noto tantissime cose cui prima non facevo caso. Cose che a volte mi provocano un dolore fortissimo e mi fanno letteralmente sentire come una sorta di “aliena”(-ta). Specialmente quando tutto il resto delle persone intorno a me invece continua a comportarsi come se niente fosse. Provo anche disagio a stare con persone che non hanno questo tipo di percezione riguardo lo sfruttamento e la sofferenza degli animali. Persone con le quali fino a qualche anno fa mi sentivo in sintonia, mentre oggi, nello starci a contatto, mi provocano una sensazione di solitudine angosciosa ed ineludibile.
Ma non tornerei indietro. Mai. Chi inizia a vedere, poi non può più dimenticare.
La nostra società è talmente intrisa di specismo da non esistere un solo settore in cui lo sfruttamento degli animali non venga considerato “normale".
Viviamo purtroppo in questa realtà così intrisa di specismo da aver contaminato anche il linguaggio. Anzi, se è vero che tra pensiero e linguaggio esiste una correlazione strettissima (“chi parla male, pensa e vive male” diceva Moretti in Palombella Rossa e lo sa bene specialmente chi si occupa di filosofia del linguaggio), direi che tante manifestazioni speciste si realizzano proprio a partire dal linguaggio.
Se sin da piccoli siamo abituati a considerare i maiale, le oche, le galline, gli asini come esseri inferiori a causa dei tanti detti popolari e proverbi che vorrebbero farci credere ciò, è facile allora che crescendo assorbiremo e faremo del tutto nostra questa convinzione.
Pensiamo solo alla balla colossale della "stupidità" degli asini che ci viene raccontata persino in una delle più note favole della nostra letteratura, Pinocchio: Pinocchio preferisce andarsi a sollazzare al Paese del Balocchi insieme a Lucignolo anziché studiare e diventare un bravo bambino ubbidiente, e così, prima gli crescono le orecchie d’asino, e infine vengono trasformati del tutto in asini, con grandi pianti di tutti e due. Ed è, questo delle orecchie d'asino, un monito che viene rivolto ad ogni bambino. Come se fosse chissà quale disgrazia.
Eppure l’asino è un animale invero molto intelligente. Come tanti altri. Ma ancora, non è questo punto. Il punto non è l’intelligenza vera o presunta degli animali perché così si continua ad indicare come parametro di riferimento la presunta intelligenza superiore degli esseri umani, e quindi, così facendo, si continua a restare ingabbiati nella pericolosa trappola dell’antropocentrismo, causa fondante dello specismo.
Giudicare le specie altre utilizzando criteri tutti umani è un atteggiamento pernicioso e profondamente immorale, oltre che scorretto proprio scientificamente. Ogni specie ha infatti delle proprie specifiche caratteristiche che le sono utili e necessarie per vivere al meglio la propria specifica esistenza e dovrebbe essere rispettata unicamente per il valore della vita che con noi condivide.
Nel momento in cui iniziamo a stilare un elenco per grado, per quantità e per qualità di intelligenza, stiamo affermando che alcune specie sarebbero superiori ad altre e questo è specismo, nonché la base del razzismo (alcuni popoli sarebbero più intelligenti o capaci di altri).
L’unico comune denominatore cui tener conto, l’unico valore che tutti gli esseri viventi condividono, dovrebbe essere invece quello del diritto alla vita.
Quindi, per concludere, e proprio anche a partire dal linguaggio, io ho cominciato a rigettare e ad eliminare nell’uso quotidiano del linguaggio tutte quelle espressioni volte a ridimensionare e discriminare gli animali sulla base di valori antropocentrici (quali il grado di intelligenza, ad esempio).
Espressioni come: “sei una capra”, “sei una stupida oca”, “sei scema quanto una gallina”, “sei un asino”, “sei un cane”, “sei un porco”, tutte indirizzate con il chiaro e palese intento di offendere, usate in maniere dispregiativa, io sto cercando di non usarle più.
E, se mi vengono rivolte, cerco invece di ricondurle su un piano neutro: “sono felice di essere un’oca perché le oche sono animali splendidi dotati di quell’intelligenza che è necessaria alla loro specie”.
Un’altra espressione molto nota che si usa quando si devono fare gli auguri a qualcuno è: “In bocca al lupo”, a cui si risponde: “crepi il lupo”.
Da diverso tempo invece io ho preso l’abitudine di rispondere: “crepi il cacciatore”. Ma ora mi rendo conto che è sciocco anche rispondere così. Meglio lasciare del tutto in pace il povero lupo, no?
E voi? Quale espressione specista pronunciate spesso senza rendervi conto delle implicazioni che vi sono alla base?
Vedete come tutto appare connesso e complicato eppure è anche al tempo stesso così semplice e anche quanto dal rifiuto di un semplice modo di dire si può pensare seriamente di partire per cominciare una vera rivoluzione?
Dobbiamo cercare di abbandonare questa visione del mondo (e persino dell'intero universo) così erratamente antropocentrica che ci accompagna da secoli ed iniziare a percepirci tutti come esseri viventi facenti parte di un tutto (il pianeta terra, l'universo) che ci ospita.
Parole ed espressioni come "dominio", "superiorità (razziale e di specie)", "antropocentrismo", "sfruttamento del più debole da parte del più forte" sono assolutamente da rigettare. Ma anche espressioni all'apparenza innocue quali "sei un lurido verme", "sei scema come una gallina", "sei viscido come un serpente", in realtà nascondono vizi e pregiudizi che non fanno che rimarcare, confermare ed apportare nuova linfa a questa tragedia immane che è lo specismo.
Vogliamo cominciare dal linguaggio?