lunedì 26 settembre 2011

La Rivoluzione comincia dal Linguaggio


Lo specismo comincia dal linguaggio.
Ed è vero che una volta che si decide di smettere di mangiare gli animali e si comincia a lottare per l’abolizione del loro sfruttamento in ogni settore poi comincia anche a cambiare la percezione che si ha nei confronti della società e della realtà  in generale.
Prima non facevo caso ad un sacco di cose.
E’ vero che ho sempre avuto una certa sensibilità nei confronti degli animali, che sono stata sempre contraria alla vivisezione, alle pellicce, agli zoo, all’abbandono e al maltrattamento degli animali da compagnia, però, come tante altre persone, ero, senza saperlo, una specista.
Non che non mi dispiacesse per le povere mucche, vitelli, maiali, pesci che mangiavo, anzi, ho sempre ammirato i vegetariani e vegani, però semplicemente subivo questa schiacciante maggioranza di una realtà e di una società che invece considera normale uccidere e sfruttare gli animali. La subivo e ne facevo parte. Ne facevo parte non mettendola in discussione, quindi restando silente e quindi, come sempre accade quando tacendo si finisce per fare il gioco degli aguzzini, era come se anche io dessi la mia silente approvazione.
Passavo davanti ad un negozio di alimentari e vedere prosciutti appesi mi sembrava una cosa normale; passavo davanti ad un negozio di scarpe e vedere tante scarpe in pelle mi sembrava una cosa normale; mi sedevo al tavolo di un ristorante e leggere un menù ricco di piatti contenenti pezzi di animali morti mi sembrava una cosa normale.
E così per tante altre cose.
Poi a poco a poco la mia percezione delle cose è cambiata, la mia sensibilità si è acuita; non per magia e non da un giorno all’altro. E’ cambiata anche perché ho voluto che cambiasse. Ho iniziato a documentarmi, a leggere libri, a guardare video, ad approfondire certe tematiche ed argomenti. Soprattutto, ho iniziato a parlare con me stessa, facendomi un sacco di domande, portando alla luce le mie contraddizioni e la mia ipocrisia.
Prima ancora che mettere in discussione la realtà che mi circonda, forse è vero che ho iniziato a mettere in discussione me stessa.
Chi sono, cosa mi aspetto dalla vita, chi credo e pretendo di essere, quali sono i valori a cui tengo, quali quelli invece frutto magari di un’educazione conformista che potrei abbandonare perché non mi ci riconosco più tanto. Insomma, ho fatto un po’ quel che si dice il punto della situazione con me stessa, spostato equilibri, eliminato puntelli che credevo ancoràti saldamente, sfrondato rami inutili.
Un valore per me irrinunciabile, l’unico in grado davvero di condurmi ogni giorno in questa strada dell’esistenza che reputo sotto moltissimi aspetti del tutto priva di senso (non essendo io religiosa), è quello del “rispetto” del prossimo. Ma non del “rispetto” inteso in senso astratto, così tanto per dire, per principio, perché poi di questo tipo di rispetto formale nessuno sa mai veramente cosa farsene, e anche perché, secondo me, non tutti poi si meritano questo rispetto: ad esempio uno che va a caccia non merita il mio rispetto, magari lo merita per altri singoli aspetti della sua personalità, che so, perché magari un cacciatore può essere pure un bravo musicista e quindi potrei voler rispettare il suo talento da musicista, ma si tratta di un tipo di rispetto più rivolto ad una determinata caratteristica che non alla persona nel suo insieme; così come non merita il mio rispetto un vivisettore o uno che scuoia gli animali per farne le pellicce; quanto piuttosto di una forma di “rispetto” verso quello che considero un valore imprenscindibile, ossia la vita, l’esistenza propriamente fisica, a prescindere dai suoi attributi morali e psicologici. E anche qui, non nell’accezione di una “sacralità” intesa in senso religioso, che non mi appartiene, ma proprio per l’essenza stessa dell’essere vivo.
Questo valore imprenscindibile della vita lo estendo a tutti gli esseri che, appunto, vivono. Tautologico.
E quindi, confrontando le mie scelte pratiche, di tutti i giorni, con quelli che erano i miei valori, ho capito che c’erano alcune cose che non andavano, che stridevano.
Una di queste era la mia pretesa, appunto, di rispettare la vita, continuando però a mangiare gli animali o a comprare scarpe di pelle. E così, pian piano, continuando a  mettere in discussione anche tante altre cose (riguardanti svariati aspetti dell’esistenza), ho cambiato abitudini, o meglio: ho adottato una filosofia di vita pratica più consona ai miei ideali teorici.
E’ un percorso - che considero virtuoso - ancora in “essere”. Si può fare sempre di meglio e sempre qualcosa in più, no?
Affermando che è cambiata la mia percezione del mondo, voglio in realtà semplicemente dire che adesso noto tantissime cose cui prima non facevo caso. Cose che a volte mi provocano un dolore fortissimo e mi fanno letteralmente sentire come una sorta di “aliena”(-ta). Specialmente quando tutto il resto delle persone intorno a me invece continua a comportarsi come se niente fosse. Provo anche disagio a stare con persone che non hanno questo tipo di percezione riguardo lo sfruttamento e la sofferenza degli animali. Persone con le quali fino a qualche anno fa mi sentivo in sintonia, mentre oggi, nello starci a contatto, mi provocano una sensazione di solitudine angosciosa ed ineludibile.
Ma non tornerei indietro. Mai. Chi inizia a vedere, poi non può più dimenticare.
La nostra società è talmente intrisa di specismo da non esistere un solo settore in cui lo sfruttamento degli animali non venga considerato “normale".
Viviamo purtroppo in questa realtà così intrisa di specismo da aver contaminato anche il linguaggio. Anzi, se è vero che tra pensiero e linguaggio esiste una correlazione strettissima (“chi parla male, pensa e vive male” diceva Moretti in Palombella Rossa e lo sa bene specialmente chi si occupa di filosofia del linguaggio), direi che tante manifestazioni speciste si realizzano proprio a partire dal linguaggio.
Se sin da piccoli siamo abituati a considerare i maiale, le oche, le galline, gli asini come esseri inferiori a causa dei tanti detti popolari e proverbi che vorrebbero farci credere ciò, è facile allora che crescendo assorbiremo e faremo del tutto nostra questa convinzione.
Pensiamo solo alla balla colossale della "stupidità" degli asini che ci viene raccontata persino in una delle più note favole della nostra letteratura, Pinocchio: Pinocchio preferisce andarsi a sollazzare al Paese del Balocchi insieme a Lucignolo anziché studiare e diventare un bravo bambino ubbidiente, e così, prima gli crescono le orecchie d’asino, e infine vengono trasformati del tutto in asini, con grandi pianti di tutti e due. Ed è, questo delle orecchie d'asino, un monito che viene rivolto ad ogni bambino. Come se fosse chissà quale disgrazia.
Eppure l’asino è un animale invero molto intelligente. Come tanti altri. Ma ancora, non è questo punto. Il punto non è l’intelligenza vera o presunta degli animali perché così si continua ad indicare come parametro di riferimento la presunta intelligenza superiore degli esseri umani, e quindi, così facendo, si continua a restare ingabbiati nella pericolosa trappola dell’antropocentrismo, causa fondante dello specismo.
Giudicare le specie altre utilizzando criteri tutti umani è un atteggiamento pernicioso e profondamente immorale, oltre che scorretto proprio scientificamente. Ogni specie ha infatti delle proprie specifiche caratteristiche che le sono utili e necessarie per vivere al meglio la propria specifica esistenza e dovrebbe essere rispettata unicamente per il valore della vita che con noi condivide.
Nel momento in cui iniziamo a stilare un elenco per grado, per quantità e per qualità di intelligenza, stiamo affermando che alcune specie sarebbero superiori ad altre e questo è specismo, nonché la base del razzismo (alcuni popoli sarebbero più intelligenti o capaci di altri).
L’unico comune denominatore cui tener conto, l’unico valore che tutti gli esseri viventi condividono, dovrebbe essere invece quello del diritto alla vita.
Quindi, per concludere, e proprio anche a partire dal linguaggio, io ho cominciato a rigettare e ad eliminare nell’uso quotidiano del linguaggio tutte quelle espressioni volte a ridimensionare e discriminare gli animali sulla base di valori antropocentrici (quali il grado di intelligenza, ad esempio).
Espressioni come: “sei una capra”, “sei una stupida oca”, “sei scema quanto una gallina”, “sei un asino”, “sei un cane”, “sei un porco”, tutte indirizzate con il chiaro e palese intento di offendere, usate in maniere dispregiativa, io sto cercando di non usarle più.
E, se mi vengono rivolte, cerco invece di ricondurle su un piano neutro: “sono felice di essere un’oca perché le oche sono animali splendidi dotati di quell’intelligenza che è necessaria alla loro specie”.
Un’altra espressione molto nota che si usa quando si devono fare gli auguri a qualcuno è: “In bocca al lupo”, a cui si risponde: “crepi il lupo”.
Da diverso tempo invece io ho preso l’abitudine di rispondere: “crepi il cacciatore”. Ma ora mi rendo conto che è sciocco anche rispondere così. Meglio lasciare del tutto in pace il povero lupo, no?
E voi? Quale espressione specista pronunciate spesso senza rendervi conto delle implicazioni che vi sono alla base?
Vedete come tutto appare connesso e complicato eppure è anche al tempo stesso così semplice e anche quanto dal rifiuto di un semplice modo di dire si può pensare seriamente di partire per cominciare una vera rivoluzione?
Dobbiamo cercare di abbandonare questa visione del mondo (e persino dell'intero universo) così erratamente antropocentrica che ci accompagna da secoli ed iniziare a percepirci tutti come esseri viventi facenti parte di un tutto (il pianeta terra, l'universo) che ci ospita.
Parole ed espressioni  come "dominio", "superiorità (razziale e di specie)", "antropocentrismo", "sfruttamento del più debole da parte del più forte" sono  assolutamente da rigettare. Ma anche espressioni all'apparenza innocue quali "sei un lurido verme", "sei scema come una gallina", "sei viscido come un serpente", in realtà nascondono vizi e pregiudizi che non fanno che rimarcare, confermare ed apportare nuova linfa a questa tragedia immane che è lo specismo.
Vogliamo cominciare dal linguaggio?

martedì 20 settembre 2011

Last Night di Massy Tadjedin


Ero indecisa se scrivere o no di questo film, così come lo sono stata nel momento di prenderlo a noleggio. Poi la curiosità di vederlo e il desiderio di condividerne con voi alcuni spunti hanno avuto la meglio.
Sia chiaro, non è un capolavoro, ma una dignitosa opera prima della regista Massy Tadjedin, già sceneggiatrice del curioso e originale The Jacket (quest’ultimo addirittura liberamente ispirato al bellissimo romanzo di Jack London Il Viaggiatore delle Stelle), quindi certamente promettente.
Dal trailer e dalla locandina si presenta come un film di genere drammatico/sentimentale dai toni brillanti e molto glamour. E, apparentemente, non sembra andare più in là di quello che promette. Per di più, sin dalle scene iniziali ci si trova di fronte a tutta una serie di stereotipi relativi a quelli che, secondo una certa visione della vita molto “americana” sembrano soddisfare tutti - o almeno molti - gli ingredienti di una vita di successo: gli attori protagonisti (Keira Knightley, Sam Worthington, Eva Mendes, Guillaume Canet) sono tutti giovani e belli, svolgono lavori che godono di considerazione e prestigio sociale (scrittori, designer, professionisti, giornalisti free-lance) vivono in appartamenti arredati con gusto e con viste mozzafiato,  socializzano incontrandosi per aperitivi in locali molto trendy,  a cene di lavoro in ristoranti chic o a divertenti party e, va da sé - visto il genere di luoghi che frequentano - che hanno sempre molto molto alcool a disposizione: non c’è una scena, una, in cui almeno uno dei personaggi non abbia un bicchiere in mano, non stia versandosi da bere, non stia proponendo un brindisi, o non stia ordinando o stappando una bottiglia. Alcool che scorre a fiumi come leit-motif  a scandire ritmo e dialoghi.
Sorvolando sul messaggio implicito che bere debba essere necessariamente propedeutico a una brillante vita sociale, sorvolando anche su tutti gli altri stereotipi di una vita di successo (appunto, lavoro figo, appartamento figo, aperitivi, feste, abiti di lusso ecc.), il film si propone dunque come disamina dell’amore e della passione sentimentale, dentro e fuori la vita di coppia, con tutto il suo fardello di gelosie, tradimenti, dubbi, fantasie, sessuali o meno, ripensamenti, rimpianti, sofferenza, ecc..
E fin qui, come ho detto all’inizio, tutto lasciava presagire una mediocrità da film di genere, certamente ben girato e impreziosito da una fotografia di eccellente qualità estetica, ma privo di quella sostanziale analisi tipica di un film d’autore quale potrebbe essere quella di un Jules et Jim e privo di uno spessore che vada oltre l’estetica formale.
Ed in parte, come ho scritto sopra, mantiene esattamente quello che sembrava promettere.
Ma. C’è un “ma”. Ma in parte, anche, da questo nucleo tematico e narrativo, abbastanza prevedibile e all’apparenza privo di elementi capaci di conferire una progressione davvero significativa a livello dei personaggi, così come della storia in sé a livello drammaturgico, si evidenziano a poco a poco alcuni tratti, dettagli, sfumature che riescono ad elevare il film e a donargli un suo legittimo spessore.
Interessante è innanzitutto il rispetto delle unità aristoteliche di tempo, luogo ed azione. Uno sguardo ad una convenzione narrativa tipica delle tragedie classiche, a ribadire l’immutabilità dei sentimenti e delle pulsioni umane, pur nella diversità delle varie epoche storiche.
La storia si svolge infatti nell’arco complessivo di una sola giornata - con un breve prologo circoscritto alla sera precedente -  condensando e facendo giungere gli eventi a compimento durante la notte; l’unità di luogo sembrerebbe, è vero, incrinarsi ad un certo punto perché due dei personaggi principali si spostano da New York a Philadelphia, ma il montaggio alternato ben rende l’idea dello svolgimento delle azioni delle due coppie speculari in contemporanea e quindi, per sinestesia, il parallelismo narrativo e l’ambientazione comunque notturna e cittadina, rimanda, nell’unità di tempo, anche a quella di luogo.
L’azione sembra duplice (ci sono due coppie), ma è la medesima per entrambi: il tradimento amoroso (sebbene di carattere diverso).
Ciò che ho trovato interessante non è tanto la duplice natura di questi tradimenti - uno di natura solo sessuale, e dettato da un desiderio solo sessuale, consumato nell’arco di un’unica notte e non più destinato a ripetersi, anche accompagnato da sensi di colpa e rimorsi e l’altro invece esclusivamente connotato da una forte intesa mentale e passionale perché completato da un reale interesse di natura sentimentale, pur senza essere realmente consumato - per cui l’oggetto ed il vero tema del film sembrerebbero consistere nell’interrogare lo spettatore su quale sia il tradimento peggiore e più condannabile, se quello “fisico”, ma tutto sommato privo di conseguenze, o quello “mentale”, destinato magari a crescere, foriero di sofferenza e insoddisfazioni; quanto, di interessante, ho trovato, oltre questo prevedibile quesito, semmai una definizione dell’amore in un senso più esteso, più ampio, destinata a debordare dai confini di un rapporto definito o persino istituzionalizzato, quale può essere il matrimonio, per scorrere e defluire liberamente nella mente, nei cuori, nelle vene delle persone che si incontrano, si sfiorano, si conoscano, fosse anche solo per una notte.
Perché, che sia una notte di solo sesso, o un sentimento più durevole anche se destinato a non realizzarsi e compiersi pienamente, è sempre di persone che entrano in contatto tra loro e dei loro sentimenti, desideri, pulsioni, desideri che si attivano, che stiamo parlando.
Come si può circoscrivere e definire l’amore a seconda delle circostanze o dei rapporti comunemente dati?
E’ giusto che l’amore all’interno di una coppia sposata mantenga il diritto di esclusione e di rifiuto di ogni altro tipo di sentimento?
E la pretesa di esercitare un dominio e controllo sulle proprie passioni e desideri, e su quelli dell’altro, circoscrivendo e definendo così la specifica natura di ogni sentimento (solo amore, solo sesso, solo amicizia, solo rapporti di lavoro), non è forse più deleteria di un qualsiasi tradimento?
E perché provare desiderio, attrazione, un tipo di amore diverso e peculiare per più di una persona, dovrebbe banalmente essere considerato nell’unica accezione negativa di un tradimento nei confronti di un’altra?
E, se per rispettare questo principio della fedeltà ad ogni costo, si tradisse però se stessi?
Può l’amore vero contemplare la rinuncia e la soppressione dei propri desideri e di quelli dell’altro per tener fede ad un principio?
O non sarebbe forse meglio, come piace a me credere, che ogni rapporto, ogni storia, non possa essere in fondo che unica e peculiare proprio in virtù dell’unicità e peculiarità delle persone che la vivono? E, allora, in questa accezione, ha senso parlare di tradimento?
E se, come tutti amano sostenere, l’amore non può contemplare il possesso, in che modo allora qualcuno può portare via qualcosa a qualcun altro e come si può davvero perdere chi si ama? O anche solo aver paura di perderlo?
Amando più persone, tolgo qualcosa a qualcuno?
Una piccola nota di colore, sempre relativa al discorso ed alle domande sopra espresse che il film mi ha ispirato: negli “extra” del DVD ci sono le interviste agli attori. Tre degli attori principali sono americani, mentre Guillame Canet è francese. I primi tre, parlando del film, hanno tutti evidenziato questa duplice natura del tradimento (di natura sessuale, ma circoscritto nell’arco di una notte e “platonico”, ma destinato a restare vivo ed acceso nell’animo per molto più tempo o anche a non estinguersi mai, in questo caso più “pericoloso”), in sostanza riconducendo tutto al valore della fedeltà ed alla capacità di onorarlo e rispettarlo oppure all’incapacità di mantenerlo cedendo alla tentazione del desiderio e della passione per un altro/a.
Certo, poi il film mostra l’ambiguità dei sentimenti ed evidenzia tante sfumature a livello di rapporti e relazioni, però tutto sembra ruotare intorno a questi concetti della fedeltà, gelosia, tradimenti ed è quello su cui sostanzialmente argomentano gli attori americani durante l’intervista.
I commenti dell’attore francese invece sembrano concentrarsi meno sull’aspetto del tradimento e più sulla natura fluida e non arginabile dell’amore e dei sentimenti, contemplando una concezione del rapporto di coppia meno basata sul possesso (dei rispettivi corpi, finanche delle rispettive menti) e più sulla spontaneità delle passioni e dei desideri.
Allora, per concludere, ciò che ho trovato interessante in questo film (oltre all’aspetto formale, come ho già detto) è proprio questa possibilità implicita che gli appartiene  - superando la banalità e la superficialità di un discorso solamente basato sui concetti di fedeltà e tradimento, pur sviscerandoli nelle loro diverse sfumature - ad aprirsi su discussioni e riflessioni di carattere più ampio, arrivando ad un’analisi dei sentimenti che, sebbene non raggiunga una certa completezza, sicuramente arriva a definire un quadro interessante, ricco di spunti significativi.
Consiglio quindi di vederlo senza pregiudizi. A mio modesto parere supera persino il tanto decantato (a distanza di visione posso dire anche sopravvalutato) Closer. E’ un film da cui non mi aspettavo nulla. E di cui pensavo nulla avrei potuto scrivere. E invece poi, a distanza di una decina di giorni, continua a sollecitarmi pensieri e riflessioni. Un piccolo gioiellino.
Per resa formale e valore di contenuto (sebbene con le dovute differenze) mi ha ricordato un po’ anche Two Lovers di James Gray, che ho molto amato e di cui magari parlerò un’altra volta.

lunedì 19 settembre 2011

L'Odissea versus I Cesaroni

Come ho scritto più volte - anche in uno dei miei primissimi post -  io da qualche anno non guardo più la televisione. Non che sia mai stata un tv-dipendente, però da piccolina e da adolescente ho avuto anche io il mio bel periodo in cui guardavo le serie televisive, le sit-com, i cartoni animati, i film adatti alla mia età; e anche quelli meno adatti, ad esempio ho sempre amato il genere horror e, quando potevo, che tradotto vuol dire quando riuscivo a farlo di nascosto dai miei genitori, mi autoinfliggevo raccapriccianti visioni foriere di sudori freddi ed incubi notturni.
Io sono cresciuta negli anni settanta e ricordo che all’epoca c’era una televisione diversa. Per diversa intendo migliore. Migliore rispetto a quella di oggi.
Non è un luogo comune, non è un falso ricordo suggestionato da un grado maggiore di impressionabilità o dovuto all’ingenuità della giovane età o anche alla freschezza di una programmazione che doveva far colpo su un pubblico non ancora smaliziato, su una società meno complessa e meno esigente.
Prendiamo le serie-tv, i cosiddetti “sceneggiati” (così si chiamavano allora, probabilmente a testimoniare proprio una certa cura a livello di sceneggiatura, evidentissima del resto, ma pure nella scelta del cast, nel montaggio, nelle musiche, nelle riprese, in tanti particolari insomma) andati in onda per la Rai a partire dalla metà degli sessanta e per tutti gli anni settanta: titoli come “Il Segno del Comando”, “L’Odissea”, “Lo strano caso della Baronessa di Carini”, “Gamma”, “A come Andromeda” e tanti altri che sono andati sicuramente persi nella mia memoria, vi dicono qualcosa? Ok, mi rivolgo a chi ha più o meno la mia età, ma sono sicura che anche i più giovani ne avranno sentito parlare o avranno magari visto i cofanetti di queste serie, quasi tutte uscite in DVD nel corso di questi ultimi anni.
E senza andare tanto indietro, ricorderei più che volentieri anche la mitica serie “Twin Peaks” ideata dal quel geniaccio di David Lynch e da Mark Frost.
Tutta roba di altissima qualità.
La scorsa settimana - in tre serate - ho rivisto in DVD tutta la bellissima serie “L’Odissea”, diretta da Franco Rossi, che andò in onda per la Rai la prima volta nel 1968 e poi - che è quando la vidi anche io, visto che nel 1968 mi sarebbe stato impossibile - anche a metà o fine degli anni settanta.
Vi assicuro che a rivederla oggi, non solo non appare affatto datata, ma ci si trova davanti ad un prodotto di così alta qualità da far sembrare ridicolo anche solo il pensiero di poterlo paragonare con quelli di oggi. E mi riferisco non solo alla qualità formale - seppure realizzata con mezzi certamente inferiori rispetto a tutte le possibilità tecnologiche ed innovazioni digitali che ci sono oggi - ma proprio al contenuto. L’Odissea è un’opera che non ha certo bisogno di presentazioni. 
 E vi assicuro che questa riduzione televisiva, ad uso e consumo di un pubblico comunque di massa - diretta ad un pubblico di spettatori quanto mai etorogeneo e variegato -  ne rispetta efficacemente l’intrinseco valore letterario.
Addirittura le singole puntate che andarono in onda nel 1968 furono introdotte, in diretta audio, da Giuseppe Ungaretti (mi dicono poi che purtroppo la Rai non provvide a registrarne la diretta, e quindi tali interventi sono andati persi. Infatti nel DVD non ci sono).
Questo sceneggiato all’epoca fu seguitissimo. Ebbe un grosso successo. Tanto che chi lo vide ed era allora bambino (come me), ancora se lo ricorda. Ed a maggior ragione se lo ricordano gli adulti.
Ancora, qualche anno fa mi capitò invece di restare un’intera notte sveglia a guardare tutte le puntate, una dietro l’altra, di un altro sceneggiato Rai molto famoso: “Il Segno del Comando”, andato in onda nel 1971, per la regia di Daniele D’Anza.
Anche “Il Segno del Comando” ha una qualità formale e di contenuto elevatissima. Ed anche questo andò in onda, tutto sommato, per un pubblico di massa. Per gli spettatori televisivi insomma. Per la TV. Per quella scatola che io oggi guardo con disprezzo.
Allora, il senso di questo mio post, perché, oltre all’operazione di revival, ha un senso, è di farvi(mi) questa semplice domanda:
come mai il pubblico di allora guardava con enorme piacere, diletto ed interesse sceneggiati come i sopracitati “L’Odissea” o “Il Segno del Comando “, mentre oggi attende con ansia “I Cesaroni” o “Carabinieri 3”?  
Come mai gli autori dei vari programmi, i direttori delle varie reti, gli organizzatori dei vari palinsesti si giustificano sempre - a fronte della scarsa qualità dei programmi odierni - sostenendo che è quello che il pubblico vuole vedere, se però, quello stesso pubblico, alcuni decenni fa (mica tanti!) era in grado di apprezzare operazioni certamente più sofisticate ed istruttive quali “L’Odissea”?
Rifletto: mia madre, che non è certo una donna molto istruita avendo solo la quinta elementare, lo ricordo bene, attendeva con ansia che arrivasse il giorno in cui andava in onda proprio “L’Odissea” (ed altre miniserie ugualmente istruttive, adesso mi vengono in mente anche “I Promessi Sposi”, andati in onda la prima volta nel 1967, diretti da Sandro Bolchi e dallo stesso co-sceneggiato addirittura insieme a Riccardo Bacchelli,  e sicuramente riproposti anche negli anni successivi) ed era perfettamente in grado di apprezzarla (altrimenti non avrebbe atteso la puntata con ansia), e - perché no? -  anche di imparare qualche cosina divertendosi.
Perché oggi, la stessa (cara dolce mammina), attende invece con la medesima ansia “I Cesaroni” (cito sempre questi perché, pur non avendoli mai guardati veramente, li ho sentiti qualche volta nominare proprio da lei)?
Che è successo?
Prima era più intelligente ed esigente mentre ora si è improvvisamente instupidita? Va bene l’età che avanza, un po’ di pigrizia mentale, ma non è così che funzionano le cose. Anzi, andando avanti con gli anni si dovrebbe diventare persino più esigenti e selettivi.
E perché i bambini di allora, come me, si appassionavano ed emozionavano per “L’Odissea” o anche “Le Avventure di Pinocchio” (quello diretto da Comencini. E quanto mi piaceva!), mentre ora vanno in brodo di giuggiole per “Amici” di Maria De Filippi o “Il Grande Fratello”?
Allora non è vero che la TV offre quello che la gente vuole vedere. E’ vero invece il contrario. E’ vero che la gente finisce per guardare e per accontentarsi di quello che la TV gli propone. E sulla base di questo ha poi modo di esercitare o meno la propria capacità critica, di modellare e modulare il proprio pensiero, di ricevere stimoli atti a tenere ben svegli ed attivi i neuroni o, al contrario, di sintonizzare la propria attività cerebrale sulla frequenza “onde delta” (anche dette, onde che caratterizzano gli stati di sonno profondo).
Non è vero quindi che la gente guarda programmi stupidi perché è stupida.
La gente, DIVENTA, stupida, a forza di guardare programmi stupidi.
Per ribellarsi, esiste solo un modo. Boicottare. Esigere qualcosa di diverso nel rispetto della nostra intelligenza.
Boicottare la programmazione odierna della TV. Programmata ad hoc per farci diventare consumatori-zombie assetati di spot televisivi, esecutori di jingle cantilenanti-espressioni di vuoto assoluto, occhi-sbarrati sul nulla, su un nulla che esige e pretende di essere costantemente riempito di altro fagocitante nulla assoluto. Il trash crea dipendenza. La TV e la moderna società dei consumi hanno stretto un patto mortifero. Più guardate la TV, più andate incontro ad una lenta morte cerebrale.
Una volta non era così. E ne ho avuto la dimostrazione proprio guardando alcune serie del passato. La visione de “L’Odissea” dei giorni scorsi me ne ha dato ulteriore conferma.
Un tempo “L’Odissea”. Oggi “Carabinieri 8”.
Un tempo Ugo Pagliai. Oggi Manuela Arcuri.
Un tempo la voce fuori campo di Ungaretti. Oggi quella sgraziata di Simona Ventura.

Meglio scegliere un bel libro, no? ;-)

domenica 11 settembre 2011

Per non dimenticare


Quell’Agosto
(Roberto Spigarelli)

Era un giorno perfetto ad Hiroshima. Il sole sembrava avere tanti raggi da non poterne più trattenere.

Ore 7:45

Da una casa in lontananza una donna usciva per andare al mercato, definendo con una mano un cenno di saluto rivolto ai i pesci rossi, quasi fossero suoi figli.

Dietro la stessa abitazione un uomo curava le proprie piante sussurrando del più e del meno, convinto che lo stessero ascoltando.

Ore 7:53

Per le vie di Hiroshima un continuo flusso di gente a piedi e in bicicletta, si affannava nei pochi minuti utili a raggiungere il posto di lavoro.

Li Vedo.

Ricordo che erano lì.
Un ragazzino con il cucciolo e il fratello più piccolo sul triciclo. Rivedo gli occhi vigili della madre.

Ore 8:00

Ricordo la stazione ferroviaria sovraffollata. Molti preferivano camminare piuttosto che accalcarsi nei vagoni stracolmi.

Ho negli occhi la figura di un monaco davanti ad un tempio. Credo stesse pregando contro l’orrore della guerra, rimirato da un ragazzo stanco seduto su scalini di pietra.

Ore 8:06

Le strutture lignee e sofisticate che donavano un bell’aspetto alla città oggi non ci sono più, ma ho nella memoria quella terra verde ed irrigata dal fiume.

Ore 8:11

Udii un suono quella mattina, proveniva dall’alto, mi sembrò quello di un motore.
Scrutammo il cielo.

Ore 8:12

Lo vedemmo tutti. Era un aereo, una visita sconosciuta.
Stava attraversando il centro abitato, lo fissammo confusi e quasi affascinati.
  
 Ore 8:14

Il velivolo aprì un portello dal quale uscì qualcosa di scintillante.
I nostri sguardi si accanirono contro quell’oggetto, rapiti nel silenzio illusorio di un attimo unico.

Ore 8:16

Pika-Don

La Bomba

Un lampo, un boato, un vento caldissimo, un’onda d’urto, rumori di crolli, la pelle che brucia, occhi accecati, corpi che inceneriscono,
ombre che rimangono impresse, orologi che si fermano, acqua che bolle, unghie che si sciolgono,
il respiro che manca, la pelle che cade, gli abiti che si attaccano, l’erba che pietrifica, il sole che si oscura, il ferro che fonde, i capelli che cadono… la morte che falcia... le mani che tremano... il cuore che si ferma... la pioggia nera.

La perdita di ogni cosa.
L’assenza della ragione umana.

Questo ho visto ad Hiroshima quel 6 agosto, ed è ciò che ho raccontato ai miei figli.
Vorrei che almeno loro, ripercorrendo la mia esperienza, non pensino all’accaduto come ad una storia lontana, ma ad un fatto realmente successo.
 Spero possano afferrare informazioni utili per l’edificazione della loro coscienza, la stessa che, almeno quell’Agosto, ha lasciato il posto alla malvagità più oscura con un gesto spaventosamente malsano e ripercorribile.
9 Agosto 1945, Nagasaki.
Non avrò mai pace fino a quando la bomba sarà sempre là, in agguato, pronta ad uccidere di nuovo.

* * * * *

Il giorno 6 agosto del 1945 gli Stati Uniti sganciano la prima bomba atomica - chiamata “Little Boy” - su Hiroshima; tre giorni dopo, il 9 agosto 1945, fanno esplodere un’altra bomba atomica - chiamata “Fat Man” - su un’altra città giapponese, Nagasaki.
Il numero di vittime che muore immediatamente dopo il lancio ed entro i quattro mesi successivi è stimato tra i 90.000 e i 160.000 ad Hiroshima; tra i 60.000 e gli 80.000 a Nagasaki.
Ovviamente il numero degli animali uccisi, ustionati, mutilati, ammalati non viene neppure riportato.
Un intero ecosistema è distrutto.
In un secondo migliaia di persone e di animali, senza avere nemmeno il tempo di capire cosa stia accadendo, vengono spazzati letteralmente via dalla faccia della terra. Cancellati. Annientati. In un attimo.
Di molti di loro rimarrà solo un’ombra impressa su un muro. Un’ombra.

Questo vorrei ricordare.
Perché se ne parla sempre troppo poco.
Perché se ne parla sempre in maniera troppo neutra, impersonale, come se tale esplosione fosse stata una catastrofe naturale ascrivibile alla mera casualità degli eventi, anziché un’azione deliberata e programmata dal governo degli Stati Uniti.
Perché quando ricorre il triste anniversario di quelle due date, non leggo mai sui giornali che poco più di un trafiletto, e  quasi mai un titolo che attribuisca la piena responsabilità di quanto accaduto agli Stati Uniti, che ne rimarchi l’assoluta, deliberata volontà di distruggere due intere città e dintorni.
Ad esempio, leggo su Wikipedia (italiana): “I bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki furono due attacchi nucleari operati sul finire della seconda guerra mondiale”.
I bombardamenti atomici furono... come se fossero stati essi stessi soggetti attivi.
Operati sul finire... operati da CHI?
Perché sempre questa forma impersonale quando si parla degli attacchi atomici da parte degli Stati Uniti sulle due città giapponesi?
Ricordo che anche sui libri di storia ho sempre notato questa “impersonalità”, questo tono “neutro”.
E allora, per non dimenticare, io voglio oggi ricordare questo crimine di proporzioni gigantesche compiuto dagli Stati Uniti.

Senza nulla togliere alle povere vittime dell’11 settembre 2001 - povere vittime anch’esse, di cui in data odierna i giornali saranno tutti unanimi nella commossa commemorazione, e di cui già da un mese a questa parte, nell’avvicinarsi dell’anniversario, si è iniziato a parlare (ad es., sui quotidiani on line, in quest’ultima settimana, ho letto svariati sondaggi del tipo: “e voi dove eravate in quel momento?” E persino il Colosseo stasera si illuminerà per la commemorazione) - quel che ho inteso comunicare con questo post è il mio disappunto verso la solita retorica trita e ritrita dei media al servizio di una propaganda di stampo unilaterale per cui solo a certi eventi si intende dare il giusto rilievo, mentre altri, e forse poiché la Storia la scrivono sempre i vincitori, sembrano quasi voler rientrare nell’aleatorietà di una decisione fatalmente dolorosa, ma necessaria.
E per non dimenticare che quell’esecrabile duplice strage fu compiuta non solo e non tanto per porre fine ad una guerra - in cui la resa da parte del governo giapponese peraltro pare fosse anche già avvenuta o comunque imminente -, ma anche come gesto dimostrativo per far capire al mondo intero nelle mani di chi effettivamente fossero il Potere ed il Comando.
E, come suggeriscono i versi finali della splendida poesia del carissimo amico Roberto Spigarelli, non avrò mai pace fino a quando la bomba sarà sempre là, in agguato, pronta ad uccidere di nuovo: oltre l’intento commemorativo dell’evento storico, la riflessione si estende all’orrore della bomba atomica in sé, quale strumento di morte; dimostrazione dell’ennesima follia che il genere umano, folle, è capace di compiere.

lunedì 5 settembre 2011

In arte tutto è permesso?

Prendo spunto dal post dell’interessante blog di Eustaki per parlare di una questione molto controversa (ma sulla quale io ho una posizione molto ferma, univoca e chiara!) e che mi sta particolarmente a cuore.
Da antispecista quale sono mi sforzo di battermi ogni giorno affinché lo sfruttamento degli animali da parte dell’uomo abbia fine. Finora ho parlato in maniera abbastanza diffusa di tutti quei settori in cui questo orrore è più manifesto: allevamenti, intensivi e non, produzione di accessori in pelle, vivisezione, zoo e simili ecc.; si parla poco invece, in generale (o lo si fa solo in casi estremi) dell’uso degli animali  e della loro strumentalizzazione, più o meno diretta, nell’arte.
Mi limiterei a qualche esempio nell’arte contemporanea e nel cinema, tralasciando il passato in quanto certamente c’era meno sensibilità riguardo agli animali e molta più ignoranza sulla loro fisiologia, emozioni, capacità di provare dolore, gioia ecc. (è noto a tutti che Cartesio sostenesse che i guaiti di dolore di un cane bastonato fossero una mera reazione meccanica, un po’ come quando si carica un orologio a pendolo e quello ad un tempo stabilito si mette a suonare).
Innanzitutto, cosa ci si dovrebbe aspettare da un artista? Beh, non so voi, io però mi aspetterei che sia una persona che in virtù di una particolare capacità critica (sensibilità più sviluppata, acume, intelligenza, fervida immaginazione, abilità nello stabilire associazioni inedite e legami tra cose apparentemente scollegate), abbinata ad un talento espressivo in grado di dare forma a ciò che sono le proprie intuizioni, sia poi in grado di offrirmi una visione inattesa della realtà (e delle sue tematiche esistenziali, filosofiche, sociali, nonché nella rielettura del mito, ad esempio); l’artista si esprime per simboli, si avvale dell’uso di metafore, disegna allegorie. L’arte è finzione (come scrive anche  Eustaki nel commento al sopracitato post), ma nella finzione dice la verità o, quantomeno, tenta di avvicinarcisi.
In particolare, da un artista, il cui sguardo sulle cose è indicato nell’opera che si sta ammirando, mi aspetterei prospettive talmente inedite tali da mettere in discussione ciò che è sempre apparso come ovvio. Semplicemente, una lettura critica della realtà, e non una constatazione passiva di essa (che forse spetta al sociologo). L’arte è anche mimesi, è vero, ma nella riproduzione c’è sempre anche un atto creativo. Ed in ogni atto creativo che si rispetti c’è anche distruzione del già dato, del noto. Si distrugge per ricreare, per dare nuova vita, nuova linfa, nuove ispirazioni. Per questo raramente l’artista è dentro al sistema culturale in cui vive, ma sempre un tantino fuori, ai margini, proprio per avere la possibilità di osservare con distacco e lucidità l’oggetto della propria analisi ed arte.
Ovviamente sull’arte e l’artista è stato detto di tutto e di più (ci sono diatribe storiche che vanno avanti da secoli) e non sarò certo io a dire qualcosa di nuovo. Anzi, mi sono dilungata anche troppo, ma questa premessa mi era fondamentale.
Trovo che l’arte contemporanea abbia prediletto i contenuti rispetto alla forma. Ed infatti, non a caso, si parla di arte concettuale, proprio ad indicare la preminenza del concetto rispetto alle forme. L’arte contemporanea inizia con le avanguardie, quindi con la soppressione (tanto sul piano formale e stilistico, quanto su quello contenutistico) dei vecchi schemi. Ovviamente (penso al surrealismo, ad esempio), c’è sempre anche un discorso socio-politico sotteso o esplicitamente dichiarato.
Occhi nuovi per cogliere la realtà insomma, una realtà che appare sempre più frantumata, soggettiva, aleatoria. Ma anche qui mi sto dilungando.
Tutto ciò per dire che, soprattutto nell’arte contemporanea, mettere in discussione la realtà attraverso una visione critica, appare a me come urgenza prioritaria. Dall’artista mi aspetto questo, e non una riproduzione a-critica di ciò che mi circonda. Aspetto che mi apra gli occhi, che mi faccia vedere qualcosa di nuovo. E che mi faccia riflettere.
L’arte è anche provocazione, a patto che non sia fine a se stessa ma finalizzata appunto ad una riflessione, ad un voler richiamare l’attenzione su qualcosa che l’artista intende dire.
L’arte può anche essere dissacrante, o ripugnante (o “crudele”, come ha scritto sempre Eustaki). Si è sempre detto infatti che qualsiasi discorso di tipo estetico dovrebbe prescindere da qualsiasi considerazione di tipo morale, in quanto la morale è anche sempre legata alla contingenza di un periodo storico o di una precisa cultura. Insomma, suvvia, l’arte è atemporale, mentre le categorie morali sono soggette al trascorrere dei tempi.
Mi domando però, ed è questo il vero senso del mio post, se tutto nell’arte debba essere, per ciò solo, davvero lecito. 
Davvero il giudizio estetico può trovare una sua validificazione solo a patto che tenga fuori considerazioni di tipo etico o morale?
Fino a che punto può spingersi l’artista per realizzare la propria opera?
E allora, per richiamare il tema portante di questo post, si può giustificare la crudeltà verso gli animali solo perché l’arte ed il giudizio estetico devono essere avulsi da considerazioni di questo tipo?
Alcuni artisti contemporanei tra cui Damien Hirst, Maurizio Cattelan, Jan Fabre non si sono fatti scrupolo di usare animali VERI (morti, imbalsamati, conservati in formaldeide) o parti di essi, per portare avanti il loro personale discorso sulla morte (o sulla vita, o sulla morte-in-vita o sulla vita-in-morte, e sulla corruzione delle carni ecc. ecc., discorsi pure molto interessanti di cui da sempre l’arte si occupa) per realizzare le loro “opere”.
Io trovo questa ennesima strumentalizzazione degli animali davvero ignobile.
Ignobile perché? Perché innanzitutto, confermando ancora una volta la considerazione dell’animale come oggetto non fa che rimarcare e rinforzare culturalmente lo specismo presente nella nostra società e cultura (quindi ci vedo una mancanza di vera capacità critica, una riproposizione dell’ovvio che anziché mettere in discussione la realtà circostante non fa che ribadire posizioni e comportamenti massificati). E poi anche perché, come al solito, viene rimarcata ancora una volta l’intoccabilità dell’essere umano rispetto all’animale.
La provocazione mi sta bene, ma allora estendiamola pure agli esseri umani, no?
Perché Cattelan utilizza un vero cavallo imbalsamato per una sua opera mentre però adopera fantocci di bambini riprodotti artificialmente per un’altra?
Perché Hirst usa vere farfalle con il corpo trafitto di spilli o quarti di bue e squali in formaldeide mentre non usa veri cadaveri di esseri umani (al massimo una riproduzione)?
Come al solito, è lo specismo che non posso fare a meno di notare.
E mi dispiaccio che alcuni cosiddetti artisti - trovandosi evidentemente a proprio agio nei clamori di un mondo che ha “consumizzato” tutto, finanche gli animali nel loro essere trattati come mere risorse rinnovabili - non si rendano conto di essere essi stessi agenti passivi di una cultura che tende a svilire l’arte e ad amplificare il consumo. Altro che innovatori!
Ancora: il regista Giuseppe Tornatore nel suo ultimo film Baarìa ha sgozzato un bovino facendolo morire lentamente dissanguato (la scena è stata dovuta girare in Tunisia, in quanto da noi la legge non consente un simile metodo di abbattimento dei bovini... anche se purtroppo consente l’abbattimento...) perché, a suo dire, e riporto letteralmente le sue parole: “quella scena mi era necessaria per evocare un clima arcaico”.
A parte che oggi gli effetti speciali nel cinema si sono talmente perfezionati ed evoluti che è possibile girare qualsiasi scena artificiosamente dando l’impressione che sia quanto mai realistica (ed un regista come Tornatore aveva sicuramente mezzi e budget per farlo, oltretutto gli sarebbe costato anche meno), ma poi, mi chiedo, davvero per un fine “artistico” è giusto sacrificare e far soffrire un essere vivente? 
E, l’ulteriore domanda che mi (vi) pongo è: ma allora, per rendere più realistico uno stupro, che so, tanto per fare un esempio, sarebbe stato giusto stuprare davvero una donna? E se, per evocare nuovamente un “clima arcaico” si fosse reso necessario uccidere un essere umano? Ma no! Certo che no! Gli esseri umani sono inviolabili, intoccabili (ed è giusto!), mentre però un animale (che soffre tanto quanto un essere umano, piccolo particolare eh, e chissà quanto quel bovino, sotto le luci dei riflettori, attorniato da cameramen ecc.  avrà provato terrore, angoscia, oltre all’agonia proprio fisica di dover morire dissanguato... e tutto questo perché si doveva “evocare una scena dal sapore arcaico”) può essere tranquillamente ucciso, fatto a pezzi, imbalsamato ecc..
Di animali fatti a pezzi sono pieni i supermercati, che bisogno c’è di riempirne anche i musei?
Per vedere un bovino fatto a pezzi (quello di Hirst è in formaldeide) mi basta rivolgere l’occhiata (disgustata!) a qualsiasi banco frigo di una macelleria.
Qualsiasi discorso sulla presenza ingombrante ed ossessiva del pensiero della morte o del tentativo di rimozione in atto nell’attuale società dei consumi che continua a far ricorso all’ennesima provocazione di sapore mortifero che prevede l’utilizzo di animali morti (o, anche uccisi all’uopo, che è accaduto anche questo) è, a mio avviso, oltre che un gesto davvero poco artistico (per i motivi di cui sopra), del tutto ingiustificabile.
Oltretutto, non è nemmeno più originale (proprio a voler dare anche un giudizio disgiunto da considerazioni etiche) come tipo di discorso.
Eustaki, nei commenti in calce al suo post, cita la body-art, le perfomances estreme in cui persino il corpo umano è soggetto a manipolazioni e mutazioni (anche nell’incontro-scontro con la tecnologia); ma c’è una bella differenza: in questo caso è il soggetto stesso (l’artista o chi volontoriamente si presta per lui) a decidere. Per quanto scioccante e provocante sia, se un artista decide di eseguire una performance in cui si recide i lobi delle orecchie (per dirne una) sono affari suoi. Parecchio diverso sarebbe invece se decidesse arbitrariamente di recidere la coda di un cane, visto che non può  chiedere, né tantomeno ottenere, il suo consenso!
Insomma, gli animali devono essere lasciati in pace di vivere liberamente la loro esistenza. Non c’è fine che tenga per giustificare il contrario. Nemmeno nell’arte!