Da un po’ di tempo a questa parte non faccio che iniziare un romanzo dopo l’altro per poi abbandonarlo dopo un tot imprecisato di pagine, a seconda dei casi: a volte arrivo persino a superare la metà, che è senz’altro un indice di elevato gradimento, ma poi, improvvisamente, uff, mi stanco e finisco per appoggiarlo con fare distratto in qualche angolo semi-nascosto della casa, così che mi dimentico persino di averlo mai iniziato e solo parecchi giorni dopo, ritrovandolo quasi per caso, mi dico: “toh, guarda, stavo leggendo questo”.
Da un po’ di tempo a questa parte, gira che ti rigira, finisco sempre per ritrovare in qualche angolo semi-nascosto della casa questi libri semi-letti, iniziati e mai finiti, e però in qualche modo già parte di me, come se il solo l’averne letta una parte, considerevole o meno, avesse messo in moto un processo di metabolizzazione autonoma, così che dentro di me tutte queste storie monche abbiano continuato ad evolversi per conto proprio fino a guadagnarsi ognuna il proprio rispettabile finale.
Eh sì, leggere da una vita a volte può far diventare lettori un po’ bizzarri. Un po’ come quando si prende confidenza con qualcosa (o qualcuno) da potersi permettere di uscire fuori dalle righe.
Capita anche che di un romanzo ad un certo punto cominci ad intravedere lo schema complessivo, che è un po’ come dire “capire dove lo scrittore sta andando a parare” e che quindi mi senta, come dire, sazia abbastanza da poterlo richiudere: che non è la stessa cosa di dire, non lo finisco perché non mi piace, ma è anzi l’opposto, è l’essere entrati un po’ troppo dentro la testa dell’autore (o dentro la storia, che è lo stesso), da l’aver visto già tutto quanto c’era da sapere. O dal supporre di averlo fatto. Ma non importa. Sono dettagli irrilevanti. Le storie continuano ad affascinare l’umanità proprio perchè la loro peculiarità è quella di non essere mai granitiche, ma adattabili ad ogni cultura e ad ogni latitudine, ad ogni carattere e ad ogni sogno di evasione. La fascinazione del leggere è tutta qui. E’ che poi, il leggere... diventa altro.
E poi ci sono quei romanzi che mi piacciono tanto, ma proprio tanto, e che, proprio per questo preferisco riservarli per momenti migliori (o peggiori, fate voi), come fossero una bottiglia d’annata. Da stappare in determinate occasioni.
E ci sono anche quelli che avrò cominciato sì e no una quindicina di volte (a dir poco!) ed interrotti sempre, nemmeno a farlo apposta (no che non lo faccio apposta, lo giuro e stragiuro, mi capita proprio così!) allo stesso determinato preciso punto. Roba da pensare seriamente di andarci in analisi. Che poi, uno dei primi romanzi con cui mi accadde questo fatto curioso (parliamo di molti anni fa, ero un’adolescente) fu proprio La coscienza di Zeno di I. Svevo in cui si parla, guarda caso, di psicanalisi. Mah. Poi alla fine, ma solo diversi anni dopo, sono riuscita a leggerlo tutto, tuttavia il motivo di quel mio blocco arrivata a pag. tot è sempre rimasto un mistero. Ogni tanto mi capita ancora di pensarci.
E poi ci sono quei libri che invece leggo in una notte (roba da perderci letteralmente la vista!).
L’altra sera, curiosando tra gli scaffali di una grande libreria che ho in soggiorno (dove ci sono tanti libri che non so nemmeno di avere in quanto non acquistati direttamente da me, ma ereditati dal padre del mio compagno, un bibliofilo mancato, ma nemmeno tanto mancato), rischiando di rompermi l’osso del collo perché l’ultimo ripiano arriva fino al soffitto ed io per poter afferrare qualche volume a caso mi sono arrampicata sul bordo della spalliera del divano sottostante, dopodiché, sperando vivamente di non tirarmi tutta la libreria dietro (in tal caso avrei avuto la morte migliore che potessi avere: sepolta da una montagna di libri! Persa per sempre tra le pagine dei miei eroi ed eroine preferiti, confusa con essi, divenuta io stessa protagonista indimenticabile di una storia avvincente tramite un processo di osmosi letteraria!), mi sono leggermente attaccata, ehmm, volevo dire appoggiata, al ripiano di mezzo, indi facendo leva sulle braccia, ho tirato giù una decina di libri pieni di polvere; ovviamente a casaccio, che in quelle condizioni precarie non ho avuto certo il tempo di mettermi a selezionare titoli ed autori.
Tra questi: Cime Tempestose di Emily Bronte, di cui almeno altre tre edizioni sono collocate nel ripiano sottostante, ché si vede che nella famiglia del mio compagno avevano la memoria corta e continuavano a ricomprare più o meno gli stessi libri a distanza di tempo (comunque già letto e pure diverse volte e pure in lingua originale), La Pelle di Curzio Malaparte (uhhh... questo è uno di quelli iniziati e mai finiti, vabbè, magari la prossima volta, eh, che stavolta voglio qualcosa assolutamente da portare a termine, così da poterlo riporre una volta finito e non da aggiungere agli altri disseminati in giro per casa), L’Angelo Nero di Antonio Tabucchi (uhhh... questo mi incuriosisce un po’, di lui ho letto solo Sostiene Pereira e ricordo che mi era piaciuto, lo tengo da parte), Lo Strano Caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde di Robert L. Stevenson (l’ho letto e visto riadattato in centinaia di film, ma quasi quasi lo rileggo... pensato però senza troppa convinzione), e pure di questo, se non erro, mi è parso di scorgerne almeno un altro paio di copie in giro per casa, e poi, per ultimo, In Caso di Disgrazia di Georges Simenon (uhhh!!! La mia attenzione è finalmente catturata: di lui ho letto L’Uomo che guardava passare i Treni, che è decisamente un gran bel romanzo e, a dirla tutta, uno dei miei romanzi preferiti, e poi altri, tipo Tre Camere a Manhattan, di cui ricordo il titolo, ma poco la trama, ma insomma, lui, scrittore a dir poco prolifico, noto al grande pubblico soprattutto per aver dato vita al personaggio del Commissario Maigret, mi è sempre piaciuto proprio per la sua abilità di scrittore, per la sua capacità di descrivere l’animo umano cogliendone sfumature inedite e cogliendolo (pardon per la ripetizione!) in riflessioni, pensieri e moti impulsivi tanto veritieri e comuni quanto inconfessabili (e credo sia per questo che piaccia tanto, perché il lettore ha come la possibilità di guardarsi lì dove non avrebbe mai osato e di sentirsi finalmente liberato per mezzo dello schermo salvifico della finzione letteraria).
In caso di disgrazia è scritto come se fosse una sorta di confessione. E lo è, infatti. Il protagonista, un noto avvocato appartenente all’alta borghesia francese, sposato, famoso per riuscire ad assolvere anche colpevoli quasi praticamente dichiarati tali, perde la testa per una ragazzetta - senza arte né parte, come si suol dire - di bassa estrazione sociale, con un’innata disposizione alla menzogna ed una grande propensione agli atteggiamenti teatrali.
Insomma, la storia l’abbiamo letta e sentita migliaia di volte: è quella della passione carnale, che invade l’anima e il corpo a dispetto di ogni logica e razionalità.
Qui non ci sono inganni domestici però, la raffinata moglie dell’avvocato, così come i suoi amici, i suoi colleghi del Tribunale, i suoi collaboratori (compresa la sua fedele segretaria, segretamente - ah ah il giochino di parole - innamorata di lui) sanno tutto, sono perfettamente a conoscenza di questa passione e frequentazione ed anzi, a dirla tutta, lo aiutano pure. La narrazione procede sotto forma di diario-confessione in cui il protagonista, partendo dal presente, si sforza di raccontare tutta la storia dall’inizio (e lo sforzo è nel cercare di essere il più possibile sincero a se stesso, senza ambiguità, senza scappatoie dettate dalla pretesa di giustificarsi o di assolversi) nel tentativo di trovarvi un senso ulteriore, magari nascosto, che possa, magari, rendere più consistente o anche rendere più intelligibile questa perdizione totale causata dalla passione carnale; come se il protagonista non riuscisse ad accettare o a capacitarsi che - oltre quella, ossia oltre la nuda e cruda passione - non ci sia stato anche dell’altro e che la sua forza sia stata così dirompente da riuscire a cambiare il corso di una vita, indugiando sui quei particolari che magari possono sembrargli degni di nota, datando il racconto e talvolta interrompendolo con ritorno al presente così da creare un duplice senso di attesa: quello suscitato dalla curiosità di conoscere tutto l’evolversi di questa passione, scritto in retrospettiva, e quello di sapere come andrà a finire, affidato ai turbamenti che vengono annotati e riportati nel tempo presente diegetico.
Definirlo un romanzo sentimentale (o anche erotico, come qualcuno ha scritto), mi sembra davvero poco. E’ una storia capace di tenere il lettore sulle spine dall’inizio alla fine, nemmeno fosse il più avvincente dei thriller. Eh sì, perché Simenon, abile scrittore di romanzi polizieschi (quelli appunto del Commissario Maigret), ma anche eccellente mescolatore di generi (dal noir al romanzo psicologico e finanche d’appendice), utilizza varie tecniche narrative per tenere sempre alto il grado di suspense, che è peculiarmente dato non tanto (o almeno, non solo!) dalla successione degli eventi (in fondo lineare ed anche piuttosto priva di particolari momenti scatenanti), ma soprattutto dalla descrizione degli stati d’animo del protagonista e da tutto quell’affastellarsi di pensieri, sensazioni e quasi morbose impressioni che costituiscono ciò che comunemente viene definita vita interiore.
Ben presto ci si rende conto di trovarsi di fronte ad un vero e proprio caso dell’animo umano, ad una vicenda i cui risvolti esteriori, in fondo, importano poco.
E tutto questo è narrato con uno stile assolutamente asciutto ed essenziale, quasi scarno nella sua semplicità. L’abilità di Simenon scrittore è proprio questa: quella di saper rendere con pochi tratti tutto un mondo interiore e di saper trovare, in questo mondo, proprio quei tratti che appartengono a tutti, in cui ognuno potrà riconoscersici - anche solo a livello di pensieri immaginati, se non direttamenti esperiti - così che da queste pennellate, tanto sottili quanto incisive, ne vien fuori il ritratto dell’animo umano, con le sue pieghe nascoste, con le sue ombre, con tutto ciò che, osservato sotto una lente di ingrandimento, può risultare persino ripugnante o inaccettabile, soprattutto secondo certi determinati canoni borghesi, di cui non manca mai di accennare un breve affresco.
E poi la sua capacità è anche quella di dare corposità alle atmosfere, di renderle quasi materiche, come se fossero non semplicemente uno sfondo, ma una nebbia grassa e pesante che cesella e modifica i corpi dei personaggi andando a congiungersi con essi.
Insomma, una lettura sicuramente degna di nota questo In caso di disgrazia (scritto nel 1955 e da cui, leggo su internet, nel 1958 è stato pure tratto un film con Jean Gabin e Brigitte Bardot, dal titolo La ragazza del peccato, per la regia di Claude Autant-Lara; ma mi spiegate perché i titoli italiani vengono sempre così ridicolmente banalizzati?), che mi è costata sì quasi un’intera notte insonne, ma che mi ha fatto ritrovare il piacere di iniziare un libro e di sfogliarlo, pagina dopo pagina, con frenetica avidità, fino ad arrivare - e non senza una lieve sensazione di tristezza - alla parola "fine".