La sua presenza nel cielo, vista dalla terra, è immensa, vivificatrice, accecante, e nasconde un terribile segreto: invisibile per tanto tempo, celato dal sole, il pianeta Melancholia, proseguendo la sua indifferente traiettoria nello spazio, si scontrerà con la terra, distruggendola.
Il previsto impatto divide il mondo della scienza: molti studiosi infatti sono certi che il pianeta passerà soltanto in maniera ravvicinata accanto alla terra, senza arrecarle danno e rendendola anzi spettatrice di uno spettacolo meraviglioso, mentre altri rendono nota l’ormai imminente fine del mondo.
In Melancholia, il regista danese Lars von Trier - utilizzando in maniera originale il genere catastrofico, generalmente appannaggio delle pellicole hollywoodiane - porta sullo schermo la sua personalissima rielaborazione di quella gravissima patologia che viene generalmente definita - più o meno affiancata da altre varie specifiche sintomatologie - depressione: malattia di cui, purtroppo, lo stesso von Trier, in svariate occasioni, ha ammesso di soffrire.
Von Trier - da vero artista qual è - racconta quel male oscuro così devastante ed annichilente che è la depressione attraverso il resoconto di una vicenda particolare - le esistenze delle due sorelle Justine e Claire - e, fondendolo con l’evento di proporzioni cosmiche - l’impatto del pianeta contro la terra - costruisce un dramma metafisico denso di rimandi e significati simbolici.
La depressione, così come l’impatto del pianeta Melancholia contro la terra, è una malattia che produce esiste devastanti, non soltanto per la persona che ne soffre, ma anche per tutti coloro che gli sono accanto.
Nel film la protagonista malata è Justine (ruolo interpretato da una brava Kirsten Dunst e che le è valso il premio a Cannes come miglior attrice), distrutta ragazza che invece di festeggiare quella che avrebbe dovuto essere la “sua” notte, sentendosi trascinata ed appesantita “da un filo di lana che le si aggroviglia intorno alle gambe e la tira sempre più giù”, provoca rovinosamente la fine del suo, appena dichiarato, matrimonio e della sua carriera lavorativa, e si arrende all’impossibilità di un sentire “normale” (“io ci ho provato, ci ho provato davvero”, dice alla sorella Claire), ma le conseguenze e gli effetti devastanti della sua malattia si ripercuotono su tutti i membri della sua famiglia, creando distanze insanabili e reazioni diverse in ognuno di loro.
Credo tuttavia che la vera, la grande, indiscussa (anche a livello di recitazione, una Charlotte Gainsbourg ingiustamente trascurata dalla giuria di Cannes) ed eccelsa protagonista, sia la sorella Claire, dolorosamente destinata a sostenere e condividere, di riflesso, il pesante, tragico cammino della patologia di sua sorella.
Io, spettatrice emotivamente coinvolta sin dalle primissime immagini, sono stata con Claire, ed è nella sua crescente angoscia e disperazione di fronte ad una totale impotenza che si configura come incapacità - divenuta ormai accettazione - di far emergere Justine dal buio nero della depressione, e di fronte alla sua graduale presa di coscienza dell’imminente catastrofe - accompagnata da un terrore annichilente - che mi sono immedesimata sin dall’inizio e commossa ed angosciata fino alla struggente scena finale.
In Melancholia c’è una tragedia già avvenuta, ed una che sta per avvenire.
Per chi è depresso è vero infatti che il mondo è già finito. Così per Justine la luce ha smesso di brillare già da molto tempo. Conducendo un’esistenza ad uno stadio larvale, invoca la fine del mondo come liberazione da un male - peso enorme, massiccio, ingombrante, devastante - il quale pari all’effetto che il pianeta Melancholia avrà sulla terra - ha già distrutto e devastato la sua anima: bellissima e di forte impatto visivo la scena in cui espone il suo corpo spoglio ai raggi malsani del pianeta, quasi invocandolo, in una sorta di attrazione di ciò che - male oscuro nel suo petto - richiama un suo simile.
“La vita sulla terra è malvagia”, non sarà una gran perdita per l’universo”: con queste parole, di una lucidità disarmante, Justine, continuando a brancolare in un buio dell’anima che le è ormai familiare, si chiude nella propria inespugnabile fortezza.
La depressione, vista dal di fuori, può apparire infatti talvolta come una torre altissima, da cui il malato, sempre più irraggiungibile, non permettendo a nessuno di avvicinarsi, chiude egoisticamente il mondo fuori. Chi è all’esterno, impotente, grida forte di una compassione che vorrebbe poter penetrare quelle barriere, ma spesso, purtroppo, tutto ciò che può fare è attendere.
Alla disperazione di Claire, ormai chiusa fuori dal quel luogo di devastazione psichica che è l’anima della sorella Justine, abbandonata dal marito - prima tronfio nella sua illusoria certezza di uomo che studia e che pensa così di poter conoscere e controllare gli eventi, poi il primo ad arrendersi - è affidato il progressivo svolgersi degli eventi, e gli spettatori, tenuti occupati per tutta la prima parte del film dalla tragedia personale di Justine, minuto dopo minuto partecipano - ed io raramente mi sono sentita così visceralmente ed emotivamente coinvolta da un film - dell’inevitabile tragedia che sta per abbattersi sulla terra.
La fine del mondo è mostrata allo spettatore tramite una sequenza che si carica di ansia e di aspettativa con il procedere dei secondi e narra - primi piani di rara intensità - la soggettiva dell’orrore che giunge, senza possibilità di salvezza alcuna.
Von Trier - con un’operazione metacinematografica - realizza con Melancholia quella che è forse la sua opera più autobiografica, ossia l’anatomia di una malattia simboleggiata e raccontata attraverso una tragedia cosmica e, così facendo, probabilmente supera e vince, sublimandola artisticamente, la sua personale catastrofe, che ha compimento in un parrossistico finale in cui - suggerendo attraverso la finzione del gioco e, per estensione, dell’arte (significativa la scena in cui Justine, ad un certo punto dei festeggiamenti, sostituisce ad una serie di raffigurazioni di arte contemporanea esposte nello studio, immagini di arte classica - Leonardo, Bruegel il Vecchio, Caravaggio, il preraffaellita Millais - quasi a cercare conforto nel potere lenitivo e catartico della bellezza), l’unica possibile via che possa condurre all’accettazione della fine; immagina e realizza così una straziante e commovente scena - l’unica in cui Justine appare forse serena - in cui ella, per non spaventare il piccolo nipotino, figlio della sorella Claire e già a conoscenza di quello che inevitabilmente sta per accadere, gli suggerisce la salvezza attraverso la costruzione di una “grotta magica”, in cui infine tutti e tre (Justine, Claire, il bimbo), in un abbraccio finale - gli occhi rivolti al cielo - attendono la morte.
Lars von Trier riesce così magistralmente a fondere dramma personale e tragedia cosmica, suggerendo ancora una volta - dopo Antichrist - una concezione dell’esistenza segnata dalla consapevolezza di un ciclo malvagio di nascita e morte, in cui simbolicamente - secondo dopo secondo - ognuno di noi viene schiacciato e distrutto da qualcosa di immensamente più grande (una malattia come la depressione, certo, ma qualsiasi altro evento personale, ed infine la morte).
Siamo tutti allora - come Justine, Claire, il piccolo - illusoriamente protetti dalla magia di una grotta salvifica, chiusi in una nostra illusoria fortezza - i riti sociali, i legami familiari, il lavoro, gli affetti - in attesa dell’inevitabile tragedia che - come il pianeta Melancholia in collisione con la terra - si abbatterà, prima o poi, su ognuno di noi.
11 commenti:
Non posso crederci. Ho appena perso il lunghissimo commento che avevo appena scritto! Detesto quando succede. Cercherò di essermi fedele, oltre che negli argomenti, anche nello slancio e nell'entusiasmo del commento perduto.
Non sai quanto sia felice nel sapere che tu sia riuscita a vedere il film! Mi avevi detto che saresti stata fuori Roma per votare ed ho temuto che non avresti fatto in tempo per acquistare i biglietti. (Io sono andata a prenderli all'apertura del cinema, alle 16.00. Mi sono sentita anche una sciocca per non averti chiesto se volevi che li acquistassi io al tuo posto, per poi consegnarteli nello spazio di tempo tra le due proiezioni.) Ad ogni modo mi fa molto piacere sapere che tu sia riuscita a vederlo!
Mi è dispiaciuto molto non essere riuscite ad incontrarci nello spazio tra i due spettacoli, in realtà io ho avuto la sensazione di vederti un secondo e mezzo dopo esser uscita dal cancello dell'uscita della sala. Ma non ho avuto né la prontezza, né lo spazio fisico per raggiungere la donna che credevo fossi tu per identificarla prima di fermarla magari erroneamente. Era una donna con i capelli dello stesso colore e lunghezza che ho visto nelle tue foto e che portava - se non ricordo male - una gonna lunga ed era in compagnia di un uomo molto più alto di lei.
Ti ho pensata anche io ed ero certa l'avresti amato quanto me. Infatti questa mattina, son venuta a controllare il tuo blog per vedere se avrei trovato un articolo che mi avrebbe rassicurata e confermato la tua visione del film. Non l'ho trovato, ma ho pensato che fosse presto. Ed appena mi è arrivato il tuo commento ne sono stata felice e son subito venuta a leggere le tue considerazioni.
E' un articolo molto bello, in cui dimostri come sempre di avere un brillante senso d'analisi, di osservazione e di profondità.
Anche io mi sono sentita più dalla parte di Claire, come scrivi tu nel commento alla mia recensione, e per gli stessi motivi. Forse perché ho provato un'empatia nascosta e così profonda nei confronti di Justine, tanto da spaventarmi e da smuovermi internamente nel prendere le veci di chi cerca di ribellarsi, di chi non si arrende, come Claire (inoltre, come giustamente dici, è intollerabile che Charlotte Gainsbourg sia stata completamente ignorata da Cannes!).
Che bello, che bello... Son rimasta "in apnea" per un paio d'ore, dopo averlo visto.
Alessia
attendo di vederlo con grande curiosità..
*se avessi trovato
Alessia, mi dispiace che hai dovuto riscrivere tutto il commento :-(
mannaggia, succede anche a me a volte, bisognerebbe infatti sempre salvare su un file.
Comunque non temere, sei riuscita benissimo - anche dovendo riscriverlo da capo - a trasmettere tutta la tua emozione.
Io in effetti ieri sono stata fuori Roma, ma ho spedito il mio compagno (rimasto a casa) a prendere i biglietti alle quattro del pomeriggio ;-)
Probabilmente ero io la persona che ti è sembrato di intravedere: i capelli sono quelli del post, ed avevo una gonna lunga di Jeans (ed il mio compagno è senz'altro un bel po' più alto di me, che non è che ci voglia poi tanto, essendo io piccolina).
Parlando del film: credimi, raramente mi sono sentita tanto coinvolta, proprio a livello emotivo, quasi viscerale.
Sia le bellissime, meravigliose scene iniziali che quelle finali mi hanno fatto letteralmente piangere.
Mi sono tanto tanto immedesimata con Claire, ho vissuto la sua stessa angoscia, impotenza, disperazione, terrore (tanto nei confronti della malattia di Justine, quanto della catastrofe).
Nel finale, quando vede Melancholia avvicinarsi sempre più, avevo letteralmente i brividi. Come se fossi stata lì.
Davvero un'esperienza catartica.
Poi mi ha tanto "immalinconita", stanotte ho dormito malissimo.
Un grandissimo film.
Von Trier non mi delude mai.
A fine spettacolo c'è stato anche l'applauso; anche a quello delle venti?
@ Marco
Anche io avevo tanta tanta curiosità, l'attendevo da mesi.
Non so quando uscirà ufficialmente, comunque per allora sarò lieta di leggere le tue impressioni.
Me lo sentivo che eri tu! Mannaggia! Ma mi era sembrato troppo assurdo: esco di sala, la prima persona che noto è quella che dovrei cercare tra una folla immensa. Mi ero sentita troppo ottimista, specialmente dopo un film che te lo smorza al massimo l'ottimismo! :D
Io ammetto di aver pianto sia nel prologo, che nella scena finale, con una partecipazione indescrivibile. Se Antichrist era riuscito a sconvolgermi e a farmi continuamente rabbrividire e provare emozioni che di rado trovo in un film, Melancholia mi ha acciuffata con un morso nello stomaco da subito. Le scene iniziali sono così... perfette, che ho creduto di impazzire di fronte a tanta bellezza. E mentre lo pensavo, ecco le lacrime.
A fine spettacolo è successa una cosa squallida, che ha rovinato a tutti la partecipazione al film. Un tale, un secondo dopo l'esplosione urla: "EH BEH, E' VERO, E' PROPRIO UN NAZISTA!". Gli avrei dato uno schiaffo in pieno viso. Dopo qualche secondo d'imbarazzo e partito un applauso. Non sono stata neanche in grado di applaudire, come ti ho detto ero nell'apnea più totale.
"Le scene iniziali sono così... perfette, che ho creduto di impazzire di fronte a tanta bellezza. E mentre lo pensavo, ecco le lacrime."
Ecco, esattamente, anche a me è accaduta la stessa cosa.
Il prologo è proprio da lasciare senza fiato. E così la fine.
Incredibile che la bellezza abbia il potere di sconvolgere, così, no?
A me capita spesso. E ogni volta è quella precisa sensazione che ricerco in un film. Ma accade raramente di trovarla.
In quanto al cretino che ha urlato quella frase... beh, sinceramente provo compassione per una persona così.
Cioè, questo qua, di tutto il film, cosa ha capito??? :-DDDD
Che poi ormai la gaffe di Von Trier a Cannes è stata ampliamente spiegata e giustificata.
Sì, è incredibile. E quando capita è magnifico.
Quello non ha capito niente. E' venuto a vedere il film tanto per gridare quella frase, senza dubbio!
Io l'avevo giustificata prima ancora che arrivassero le sue scuse, insomma, era abbastanza evidente fosse una battuta malgestita. Però è assolutamente comprensibile anche la reazione di Cannes. L'idifferenza non sarebbe stata una reazione corretta. Poi vabbè, io non l'avrei cacciato, ma sono di parte! :-D
Quel che mi ha un po' fatta ridere (amaramente) son stati alcuni post di blogger che scrivevano "non guarderò più tuoi film", "von Trier non è ben accetto a Cannes, e nemmeno nel mio blog"...
Insomma... vabbè.
Ma certo, guardando il video della conferenza stampa si capisce benissimo che si trattava di una battuta, certo molto infelice ed inappropriata al contesto; in realtà lui è andato abbastanza nel pallone quando ha iniziato a parlare di Hitler, dicendo che lo capiva, ovviamente nel senso di comprenderlo nella sua natura di essere umano che, in quanto tale, può essere votata anche al male, ma comprendere non significa affatto giustificare; e del resto, da uno che ha realizzato un film come Antichrist, per cui la Natura è la chiesa di Satana in quanto nel principio della vita è implicita anche la condanna della morte, non ci si può certo aspettare una considerazione tutta "rose e fiori" dell'umanità; ma sono discorsi filosofici che pochi possono comprendere; poi, probabilmente di fronte alla reazione sbigottita del pubblico, ha tentato di chiarire la sua posizione, aggiungendo che ovviamente non era affatto antisemita, pur non condividendo la politica di Israele (ha usato una frase un tantino più forte, ma la visione politica non c'entra nulla con l'antisemitismo), a questo punto è andato poi ancora più in confusione totale, probabilmente rendendosi conto di essersi infilato in un ginepraio, ed ha quindi pronunciato la frase dello scandalo, utilizzando in realtà una figura retorica abbastanza nota, la cosiddetta antifrasi, "ok, sono un nazista!", che sta a voler significare esattamente il contrario di quello che si afferma (antifrasi: proposizione che significa il contrario di ciò che si afferma).
Poi tutto il casino l'ha fatto anche la stampa, che su una notiziona del genere ci è andata a nozze (come si suol dire), e a quel punto è ovvio che a Cannes si sono sentiti in dovere di prendere una decisione.
In quanto ai blogger che hanno scritto: "non guarderò più i suoi film", beh, saranno certamente loro a perdersi qualcosa, e di certo Von Trier non ci perderà il sonno :-DDD
c'è poco da fare: capolavoro e ciao ciao a tutti gli altri... :)
Infatti :-)
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