Umberto D. è uno dei miei film preferiti e tra quelli del grande Vittorio De Sica lo preferisco persino al capolavoro Ladri di Biciclette.
La storia è semplice: il signor Umberto D. Ferrari è un pensionato che fatica ad arrivare a fine mese e deve fare i salti mortali per potersi permettere di pagare la stanza - nell'appartamento di una signora borghesotta e un po’ cafoncella - presso cui alloggia insieme al suo compagno di vita Flaik: un dolcissimo e simpaticissimo cagnetto.
La prima scena ci introduce subito a questa situazione di difficoltà economica mostrando un corteo di pensionati che chiedono l’aumento delle pensioni affinché possano trascorrere il tempo che resta loro da vivere in una maniera dignitosa. Curioso come questa scena, nonostante il film sia del 1952 e sia ambientato nella Roma dello stesso periodo, risulti oggi ancora attualissima: a dimostrazione che in Italia nulla è cambiato. Le pensioni sono sempre da fame e la gente - nonostante faccia cortei, manifestazioni, proteste, lotte ecc. - continua ad essere inascoltata.
A seguire, il corteo viene disperso dalla Polizia perché non autorizzato: scena piuttosto dolente poiché - attraverso i volti rigati dalla rassegnazione degli anziani pensionati - si evidenzia il vanificarsi e l’inutilità della loro ribellione.
Questa folla piegata e rassegnata inizia a disperdersi e da questo momento la telecamera inizia a seguire Umberto D. nelle sue varie peripezie e tentativi per guadagnare qualche soldo nell’attesa del prossimo - scarso - stipendio, pena il dover essere sfrattato, insieme a Flaik, dalla proprietaria della stanza in cui dorme.
Tenta dapprima di vendere il suo orologio, dopodiché, racimolate appena tremila lire, solo una parte dell’intero ammontare dell’affitto, le offre come anticipo alla padrona di casa. Questa rifiuta, quindi è costretto ad uscire di nuovo, questa volta a vendere dei libri (e con questo particolare, con pochissimi tratti, si delinea il suo passato di persona istruita ed amante della cultura), ma senza riuscire a raggiungere ancora la somma richiesta.
La signora, irremovibile, pretende l’intera somma ed ogni volta rimanda indietro l’anticipo da lui offerto tramite Maria, la ragazza tuttofare che lavora come “serva” - questo il termine che si usava allora - in casa della signora.
Tra Maria ed Umberto D. nasce una bellissima ed atipica amicizia.
Atipica perché lei è ignorante, goffa, ingenua, incapace di esprimersi correttamente, incinta senza sapere quale dei due ragazzi militari che aveva frequentato fosse il padre, mentre lui è una persona fine, gentile, educata, ingegnosa, brillante, istruita (riprende continuamente Maria nel tentativo di farle comprendere l’importanza dello studio “certe cose avvengono perché non si sa la grammatica: tutti si approfittano degli ignoranti.”), eppure autentica, questa amicizia, intanto perché, seppure appunto di estrazione sociale diversa, i due sono ora uniti nella medesima condizione di “vinti”, e poi perché si prendono cura l’uno dell’altro.
Umberto D. ha anche un altro amico, un amico davvero speciale, in ogni senso. Lui è il sopracitato cagnetto Flaik, un bastardino vivace che ha sempre voglia di giocare e di cui l’anziano uomo si prende cura con amore e dedizione; ed è proprio su questa straordinaria storia d’amicizia che poggia e si snoda l’intero film. A partire dalla commovente scena in cui lo conduce con sé alla mensa della Caritas e gli passa il cibo di nascosto sotto il tavolo, per passare a quella tragicamente divertente in cui gli mette un piattino in bocca per chiedere l’elemosina, salvo poi, trovandosi a passare un amico dei tempi passati, benestante, si vergogna e finge di sgridare Flaik perché “si diverte sempre a giocare così, ma che figure mi fai fare”, e ancora a quella - drammaticissima (e per me realmente insopportabile) in cui - a causa di varie peripezie - Flaik finisce al canile comunale rischiando di essere gassato insieme a tutti gli altri randagini che sono stati presi dall’accalappiacani (in Italia tale pratica barbara fortunatamente non esiste più, purtroppo invece in altri paesi, quali la Spagna, ad esempio, ancora è legale uccidere i cani trovatelli che non riescono ad essere adottati), per poi procedere in un crescendo di altre situazioni tutte volte ad evidenziare questo profondo affetto che lega il pensionato al suo cane.
Succede però che ad un certo punto Umberto D., persa ogni speranza di poter mantenere la stanza in cui alloggia, si arrende. Non ha parenti o amici presso cui andare, è un uomo anziano, senza nessuna prospettiva per il futuro, indigente a causa della scarsa pensione: nella mente gli balena allora un’unica soluzione: quella di morire, di suicidarsi; non prima però di aver provveduto a lasciare l’adorato Flaik in mani sicure, nelle mani di qualcuno che saprà garantirgli cibo ed altrettanto affetto.
Tenta dapprima presso un rifugio per cani a carattere familiare, ma, per niente soddisfatto dopo aver parlato con la proprietaria, riprende il cagnetto con sé, quindi si dirige presso il parco sapendo di incontrare una bambina tanto affezionata a Flaik e cerca di convincerla ad adottarlo, ma la tata della piccola la dissuade, infine, deciso comunque a lasciarlo lì con lei, si allontana furtivamente attraverso il parco, sperando che Flaik non si accorga e non gli corra dietro.
A questo punto si avvicina ai binari di una ferrovia, deciso a farla finita.
Ma Flaik lo raggiunge. Al povero pensionato allora, disperato, non resta che prenderlo in braccio, preferendo trascinarlo nel tragico gesto, piuttosto che saperlo abbandonato, infelice, piangente il suo caro “amico umano” e destinato ad una fine orribile nel canile.
Il treno sta per arrivare. Flaik, con uno scatto improvviso, gli scivola via dalle braccia, comprendendo il gesto folle del suo amato amico umano, e fugge via spaventato.
A questo punto la scena si fa più intensa che mai, e bellissima. Una delle più belle di tutto il cinema italiano. Passa un secondo, oppure due, sul volto di Umberto D. tutta l’intensità dell’ultima decisione, di quella irreversibile.
Vivere o morire.
Vivere o morire lasciando Flaik solo, abbandonato, senza più nessuno a prendersi cura di lui, verso l’unico destino possibile: quello di andare a finire al canile per poi essere gassato insieme a tutti gli altri sfortunati randagi, la cui unica colpa è stata proprio quella di essere stati a loro volta abbandonati.
E poi il treno scorre via. Il fragore delle rotaie in sottofondo.
La scelta è ormai compiuta. Vivere. Ha scelto di vivere per non lasciare il suo Flaik. Torna indietro a cercarlo, lo chiama con voce rotta dall’emozione, ma il cagnetto - spaventatissimo - si è nascosto dietro un albero. Allora raccoglie da terra una pigna e gliela lancia. Flaik, giocherellone impenitente, esce da dietro l’albero ed inizia a giocare. E Umberto D. con lui.
E insieme se ne vanno, correndo, giocando nel parco, come due bambini, due piccoli grandi amici inseparabili che hanno stretto un patto: quello per la vita, giurandosi a vicenda di proteggersi l’un l’altro. Per sempre.
L’istinto di Vita - simboleggiato dalla dimensione ritrovata del gioco - ha vinto sulla pulsione di Morte.
Si può dire che tutto il film si snodi attraverso questo duplice binario: da una parte la pulsione di Morte, che è nella povertà materiale, ma anche nella miseria dello spirito della padrona di casa - irremovibile nella sua indifferenza e crudeltà di fronte ad una persona sola ed anziana che non riesce a pagare l’affitto, meschina e volgare nelle sue aspirazioni di togliere la stanza all’anziano uomo per ristrutturare la casa in vista del ricevimento di nozze -, e ancora nella miseria spirituale degli amici di un tempo, sempre di corsa, indifferenti anche loro alle implicite richieste dell’anziano pensionato (implicite perché incapace a chiedere direttamente, pena la perdita della propria dignità, ma tuttavia trasparenti ed inequivocabili nell’evidenza di uno stato di difficoltà); pulsione di Morte che è quanto mai evidente nella crudeltà della normativa comunale di gassare i cani nel canile e quindi nell’indifferenza delle istituzioni verso i derelitti, i bisognosi, i deboli, indifferenza mostrata anche nella scena dell’ospedale in cui il pensionato è ricoverato per un periodo: lungo camerone affollato di degenti dove spesso gli anziani muoiono in completa solitudine, ed anche in quella in cui, in maniera gretta e cruda, Maria dà fuoco alle formiche che camminano sulle piastrelle della cucina, ed in tante altre di miseria e solitudine quotidiana, solitudine dell’anima, e sociale, e la prima troppo spesso che deriva da quella sociale; e dall’altra, sul binario opposto, scorre invece lo spirito di Vita, che è rappresentato soprattutto dai giochi ed i salti di gioia di Flaik, dal suo rincorrere fedelmente il suo amico umano, ma anche dalla tenacia con cui l’ingenua Maria affronta la vita (esemplare il suo aver comunque tentato il salto di qualità, abbandonando la campagna per venire a vivere in città, seppure da “servetta”, e la sua determinazione nel trovare un padre al figlio che porta in grembo), e dal suo incitamento ad Umberto D., nel momento dei saluti, a scriverle (non immaginando che lui fosse determinato ad uccidersi, credendo alle sue bugie di aver già trovato un altro alloggio, perché Maria, nel bene e nel male, è comunque una ragazza troppo ingenua, persino sciocca, non ha la finezza per poter comprendere quello che sta accadendo), immaginando un futuro che in realtà non esiste, non nella mente di Umberto D. in quel momento, almeno.
E se alla fine l’istinto di Vita vince sulla pulsione di Morte è perché Flaik riesce a trasportare nuovamente Umberto D. in quella dimensione giocosa, la quale, causando una regressione all’infanzia - il gioco è il simbolo per eccellenza dell’età infantile - è l’unica che può, di fatto, vanificare lo spettro della Morte.
E ancora una volta - come già in Quarto Potere di Orson Welles - è il ricordo dell’infanzia che irrompe ed interviene nel momento ultimo. In Quarto Potere è la ricerca dell’infanzia perduta che porta il protagonista, il magnate della stampa Charles Foster Kane, alla dissoluzione e fallimento totale della propria esistenza, e solo in quell’ultimo anelito di vita in cui riesce a pronunciare la “mitica” e “misteriosa” parola “Rosebud” è racchiuso il senso dell’intera sua parabola esistenziale; in Umberto D. la salvezza del ricorso all’infanzia è portata da Flaik e dai suoi giochi di cane spensierato, anima-simbolo di protezione ed amicizia, tensione verso e per la vita, compagno fedele nel superamento di ogni solitudine.
Umberto D., rinunciando a morire, crede infatti di aver salvato Flaik da un destino terribile (quello della morte nel canile), ma in realtà è Flaik, con la sua giocosa voglia di vivere, che salva l’anziano uomo.
Finché continueranno a giocare insieme, saranno salvi.
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Chiudo lanciando un accorato appello:NON ABBANDONATE IL VOSTRO AMICO CANE, GATTO, FURETTO, CONIGLIO O QUALSIASI ANIMALE VOI ABBIATE ADOTTATO.
PORTATELO IN VACANZA CON VOI DURANTE L’ESTATE O, SE PROPRIO NON SARA’ POSSIBILE, LASCIATELO A QUALCHE PERSONA FIDATA CHE SAPPIA PRENDERSENE CURA DURANTE LA VOSTRA ASSENZA.
NON CONDANNATELO A SOFFERENZE INDICIBILI ED A MORTE CERTA ABBANDONANDOLO. L’AMORE CHE TUTTI GLI ANIMALI SONO IN GRADO DI DARCI E’ PREZIOSO QUANTO QUELLO DI UN ESSERE UMANO E ANZI, FORSE DI PIU’, PERCHE’ INCONDIZIONATO ED ASSOLUTO!