L’uomo esce e si trova davanti lo splendore di una notte serena; a questo punto segue una descrizione idilliaca di questo giardino rischiarato dalla luce lunare ed immerso in un silenzio quasi irreale.
Improvvisamente però l’uomo, quasi come se i suoi sensi si fossero magicamente acuiti, inizia a vedere, sentire, percepire tutto un “brulichio” di insetti, piccoli animali e anche animali più grandi intenti ad ingaggiare tra loro l’eterna lotta per la sopravvivenza. E, come se all’uomo fosse dato di vivere una sorta di epifania dolorosa, inizia a vedere quel meraviglioso giardino per il luogo che realmente, anche, è: un luogo di orrore e di disperazione, di sofferenza, di angoscia, di puro dolore e terrore. Centinaia, migliaia di creature viventi, dalla più piccola alla più grande, si divorano l’un l'altra a vicenda, sopraffacendosi, sbranandosi, contorcendosi, lottando inutilmente ed ineluttabilmente, gemendo, provando dolore: un ragno-botola afferra e divora una graziosa cavalletta ancora bambina (sic), ma non fa in tempo a gustarsi la preda che a sua volta finisce nella bocca spalancata di un rospo, il quale, prima del sorgere dell’alba finirà tra gli artigli di un barbagianni; una piccola chiocciola si contorce dal dolore mentre una larva assalitrice la trasforma nel proprio pasto, un grillo finisce assassinato da una talpa, una farfallina si dibatte spezzandosi le ali attirata dalla luce di una lampada; e così via, tutto un susseguirsi di grida e lamenti strazianti, di corpi che si contorcono, che vengono dilaniati, di zampette staccate a morsi, di teste lacerate da fauci fameliche, di denti aguzzi che strappano e lacerano tenere carni e di urla rivolte lassù, verso quella luna che osserva con un superbo distacco.
E non solo in quel giardino, ma ovunque, in ogni luogo, la stessa reiterata e prolungata agonia. E non solo di notte, ma sempre, al sorgere di ogni alba fino al crepuscolo, per proseguire all’infinito, in una crudeltà senza requie.
Trovo che ci sia una notevole somiglianza tra il significato di questo racconto ed alcuni aspetti dell’ultimo film controverso - amato o odiato, senza mezze misure - del regista danese Lars von Trier dal titolo Antichrist, uscito nel 2009.
In quest’ultimo - a differenza che in Dolce Notte - la situazione di partenza si pone già come esperienza tragica. Una coppia - un uomo ed una donna, che per l’intero film non vengono mai designati con il loro nome, quasi fossero degli archetipi - in seguito alla morte del loro bambino si rifugiano nella loro casa immersa in un bosco denominato “Eden” - nome ovviamente simbolico - nel tentativo di metabolizzare il lutto ricorrendo alla psicanalisi; più esattamente è l’uomo, uno psicoteraupeta, che si fa personalmente carico del dolore della moglie e che cerca di aiutarla a superare il trauma. Pian piano quel bosco quasi incantato, governato da una natura indomita, da luogo fuori dal tempo e dallo spazio in cui trovare rifugio, accoglienza e cura per il dolore, diventa catalizzatore delle paure e pulsioni più profonde, facendosi espressione dell’ineluttabile agire di un universo maligno, sottoposto alle ferree leggi di un caos ingovernabile ed incomprensibile.
Anche qui la medesima epifania dolorosa di Dolce Notte: “sento il pianto di tutte le creature che sono destinate a morire”, dice la donna (una splendida Charlotte Gainsbourg, la cui interpretazione le è valsa il premio al Festival di Cannes come miglior attrice), e poi, anche “la natura è la chiesa di Satana”, causa e fine di ogni orrore. Associandolo al proprio senso di colpa per la morte del figlio, la donna riconosce nel principio femminino della natura - cui spetta il compito della procreazione - il principio di un Male cui si deve necessariamente soggiacere nel momento stesso in cui si ha l’empio dono della vita. Empio perché far nascere equivale destinare a morire. Efficace la scena in cui un cervo femmina vaga per il bosco con un feto che le penzola tra la gambe, a conferma della morte che è insita nel principio della vita. Nel trattare il tema della maternità, della procreazione, del femminile che ha in dono il potere di dare la vita e delle conseguenze temibili e nefaste che ogni generazione di "altro da sè" può produrre, Von Trier si accosta a riflessioni di chiaro sapore beckettiano. E’ innegabile che infatti dare la vita è anche, paradossalmente, destinare alla morte, "nasciamo a cavallo di una tomba", ci ricorda il teatro di Beckett (contenente già a sua volta echi di un altro classico teatrale, La vita è sogno di Calderon de la Barca, in cui il re Basilio rileva come il ventre partoriente sia una sorta di sepolcro).
In questa concezione nascere e morire sono la stessa cosa, non c'è consolazione alcuna nell'esistenza, la natura stessa e tutto ciò che ci circonda è destinato a morire e ad essere fonte di dolore e sofferenza.
Simile considerazioni non sono nuove in letteratura (e nel cinema, cui spesso si ispira), già Leopardi si era fatto portatore di una visione esistenziale cupa ed angosciosa nell’indifferenza di una natura crudele e priva di pietà. Un pessimismo cosmico che tuttavia non incita all’abbandono in una disperazione senza riscatto ma alla fratellanza nella condivisione di una medesima sorte. Visione che quindi tende a discostarsi - negli esiti - da quella dei due autori sopra (Buzzati e Von Trier).
A tutto questo vorrei infine aggiungere delle personali considerazioni, che riguardano da vicino la maniera con cui spesso l’essere umano accampa scuse ed alibi per giustificare l’ignobile maniera con cui tratta gli animali e in genere le creature più deboli ed indifese.
È vero che nella natura agisce un principio di sopraffazione del più forte sul più debole che non esiteremmo a definire “crudele”, o quantomeno “necessario”. È vero che gli animali si mangiano tra loro, che la pianta più forte soffoca le radici di quella più debole e che l’intero ecosistema si basa su questo eterno - terribile - ciclo di distruzione e morte, di vita che cessa e vita che torna ad essere, di esseri che si mangiano l’un l’altro al fine della reciproca sopravvivenza (“viviamo su una terra di cadaveri”, scriveva Elias Canetti) ma, noi esseri umani, creature eticamente più evolute, che ci facciamo grandi agli occhi del mondo per le nostre raggiunte capacità tecnologiche, che ci vantiamo delle nostre scoperte scientifiche, della capacità di poterci tramandare la conoscenza attraverso l’invenzione della scrittura, che lodiamo la bellezza dei nostri manufatti artistici; noi, che ci vantiamo di aver superato la dura legge hobbesiana della lotta del più forte sul più debole e della sopraffazione vicendevole, noi che ci sentiamo onorati di essere riusciti a stilare una carte dei diritti degli esseri umani, in cui principi etici sconfiggono (o almeno dovrebbero, in teoria) qualsiasi rivendicazione di tipo economico o utilitaristico, come mai - per giustificare il massacro di creature incapaci di difendersi da noi - non esitiamo a tornare ad invocare quello stato di natura che, nei contesti di cui sopra, consideriamo invece superato da un pezzo?
O ammettiamo di essere anche noi parte di un caos ingovernabile, bestie tra le bestie, pure pulsioni in lotta contro altre pulsioni, senza meraviglia o senso del tragico alcuno quando un nostro simile umano muore, preda di una necessarietà ineludibile, oppure ci uniamo nella constatazione di un medesimo destino che tocca tutti noi esseri viventi - uomini ed animali compresi - e ci riserviamo pietà e comprensione reciproca, senza esclusione alcuna. Senza alibi alcuno teso a giustificare un’uccisione piuttosto che un’altra, a favorire un delitto piuttosto che un altro.
Inoltre, se è vero che nessuno di noi può nulla (nemmeno l’evoluzione tecnologica!) contro lo spietato principio di una natura e di un principio cosmico indifferente al nostro timore della morte poiché nascere e morire è la nostra sorte, perché non cerchiamo almeno di risparmiare e risparmiarci il gesto di una malvagità gratuita, facendo attenzione a non generare più morte e dolore di quelli che siano necessari? Perché calpestare indifferentemente una formica o spezzare crudelmente le ali di una farfalla per indifferenza o, peggio, per diletto? Perché - noi che possiamo, noi esseri che non sprechiamo mai un’occasione per definirci “evoluti” - non cogliamo l’opportunità di smettere di nutrirci del sangue, dei muscoli, della carne, delle viscere di altre creature? Perché destinare quegli esseri ad una sofferenza e all’agonia di una lunghissima prigionia per il nostro solo piacere del palato?
E’ mai possibile arrecare tanto danno e dolore solo per giustificare il nostro gusto (che è comunque, non dimentichiamo, anche un indotto culturale)?
Perché aggiungere al “pianto di tutte le creature che sono destinate a morire” , già per mano della natura, altro pianto superfluo, altra sofferenza, altro dolore che potrebbe invece essere risparmiato?
Noi, esseri che abbiamo in comune la medesima capacità di soffrire, perché non cogliere l’opportunità di darci conforto e di destinare quel sentimento meraviglioso che è la pietà e che ci contraddistingue anche come esseri evoluti a tutto ciò che vive e si agita e soffre - uomini ed animali, medesime creature facenti parte di un medesimo principio vitale - anziché aggiungere ad un destino già crudele altro indifferente e gratuito dolore?
No, non è necessario aggiungere altro dolore. Non è necessario uccidere gli animali.
Si nasce e si muore, e questo è inevitabile. Ciò che si può invece evitare è arrecare dolore ad altre creature.
2 commenti:
uno degli elementi straordinari in Buzzati è il suo sguardo che reisce a penetrare l'essenza delle cose---
così la notte incantata è il solito teatro della guerra per la vita,per la sopravvivenza (mi viene in mnete un altro racconto " lo sportello"...)
il contrasto della vita: il mescolarsi di emozioni, di sensazioni, di pace (apparente) e guerra---
un campo di battaglia interiore, innanzitutto---
le Domande di Buzzati, bè, un senso etico oltre l'apparente laicità dell'autore stesso---
S
"Un senso etico oltre l'apparente laicità dell'autore stesso":
una sorta di fede a-religiosa; come testimonia il Colombre. La capacità di affidarsi e credere nel proprio destino.
Ed è vero che Buzzati riesce a penetrare con lo sguardo l'essenza delle cose: uno sguardo epifanico.
Molti, a torto, lo definiscono un autore a tratti surreale, magico, in realtà è soltanto uno che pone domande diverse e trova risposte diverse. Oltre la superficie.
Oppresso dalla consapevolezza della morte, ma per questo ancora più sensibile nei confronti della vita e ben attento ad accoglierla pienamente. Talvolta però la consapevolezza giunge in ritardo ed allora il rimpianto di qualcosa che è andato irrimediabilmente perduto diviene l'unica nota dominante: come in quel bellissimo racconto dal titolo "Il registratore".
Grazie per il tuo commento e per essere passato di qui. :-)
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