martedì 23 aprile 2024

The Shield. La serie.

 

Mi sento orfana di una delle serie più belle di tutti i tempi, quella che forse meglio di tutte ha saputo raccontare senza fare sconti i caratteri complessi degli antieroi. Mi riferisco a The Shield, vista in ritardo di 20 anni, come al solito. 
Ti accorgi che una serie è scritta bene quando, una volta terminata, ti porti i personaggi nella vita reale e continui a chiederti come se la stiano cavando, cosa stiano facendo, se li rivedrai mai e quando, per quante cose sporche e immorali facciano, tu sei ancora lì a fare il tifo per loro e, se non a giustificare le loro scelte, quanto meno a comprenderle. 
Le sette stagioni di The Shield non solo non hanno mai un calo qualitativo, ma, cosa rarissima, direi forse unica, danno il loro massimo nelle ultime due fino ad arrivare a un finale perfetto in cui si chiudono tutti gli archi narrativi.
Per chi non ne avesse mai sentito parlare, vi dico in breve di cosa parla (ATTENZIONE SPOILER): ambientata in un distretto di Los Angeles chiamato Farmington, crocevia di una delle zone più malfamate della metropoli, lì dove si incontrano e scontrano le bande multirazziali dedite ai traffici di droga, armi, prostituzione e riciclaggio, la serie è incentrata sulle vicende di una squadra d'assalto composta da 4 persone e condotta dal detective Vic Mackey, un uomo corrotto ma con una sua etica e senso dell'onore, dedito alle famiglie, sia quella composta dalla moglie e i tre figli, di cui due autistici, che quella definita tale da lui stesso e composta dai membri della sua squadra. 
Attorno a lui si muove il resto dei detective del distretto, ognuno con le proprie capacità e ruolo lavorativo, Capitani, Sergenti, poliziotti di strada, membri della Commissione  interna che in teoria dovrebbe vigilare sull'operato del Distretto, agenti federali, uomini politici ambiziosi e protagonisti vari che occupano ruoli chiave nel mantenimento del sistema in lotta, ma più spesso in affari, e strumentalmente, con i vari pezzi grossi del crimine organizzato. 
La serie inizia in medias res mostrandoci la squadra e il distretto, nei suoi vari ruoli, in azione; non sappiamo e né lo sapremo mai quando e perché Vic e la sua squadra siano diventati corrotti, ma quel che si racconterà durante le sette stagioni è la discesa agli inferi di un legame sempre più malato e folle - tra loro, ma anche con il crimine - che li condurrà inevitabilmente verso il destino che meritano. Un destino che tuttavia, fino all'ultimo, continuiamo a sperare diverso. 
Uno dei momenti più belli è proprio la lettura di una lettera che Shane scriverà al distretto in cui dice qualcosa come: "Non so chi di noi fosse peggio, se Vic o io, ma quello che so è che ognuno di noi due tirava fuori il peggio dell'altro". 
La lettera riassume un po' il senso complessivo della serie: ci sono mondi e personaggi speculari a confronto: il distretto di polizia e il mondo del crimine; la squadra d'assalto corrotta e i detective che agiscono in modo moralmente ineccepibile; i papponi e le donne prostituite sfruttate; i poliziotti e le indagini degli interni; Vic e Shane e gli altri due della squadra, Lem e Ronnie; carnefici e vittime. 
Questi opposti, mondi e micromondi speculari, si combattono, ma anche strumentalmente si usano a vicenda per tornaconti personali, di squadra o per altre infinite ragioni. 
The Shield è infatti una serie senza speranza, amarissima perché nessuno ne esce pulito e persino i detective più specchiati moralmente commettono azioni discutibili e mostrano la loro ferocia e spietatezza anche proprio nel voler restare puliti e punire il crimine come se anche la via della morale fosse alla fine un mezzo per esprimere e sfogare odio, rabbia e frustrazioni o cercare il potere; il punto è che ognuno ha i propri demoni e sono proprio questi ad agire il più delle volte facendo ballare i loro burattini al ritmo di una danza macabra perché è il mondo, il sistema a essere marcio e oscuro e chiunque si muova e agisca al suo interno ha solo l'illusione di scegliere, ma in realtà non fa che adempiere, passo dopo passo, a un destino che non può che essere tragico. 
The Shield può essere infatti definita una tragedia moderna in cui gli eroi usano i mezzi a loro disposizione e agiscono secondo un ruolo specifico, ma senza avere mai contezza del disegno complessivo. Tutti tranne Vic, forse, che è l'unico che probabilmente quel disegno lo vede e lo tratteggia fino in fondo, perdendo tutto, ma non sé stesso perché anche tradendo rimane sé stesso fino all'ultimo, come un vero antieroe che realizza fino in fondo il suo destino e che nel farlo si piega, ma non si spezza essendo tutt'uno con il proprio destino: non individuo, ma uomo che si fa destino e per questo diviene (anti)eroe. 
The Shield è sporca anche nell'estetica, riprese sgranate, macchina da presa a mano, azione tanto spettacolare quanto sempre totalmente realistica e ancora parecchio attuale perché quando la scrittura è eccellente, regge il tempo che passa. 
Unica cosa per me negativa è la breve sigla musicale che arriva dopo i primi minuti di prologo di ogni episodio: assordante e fastidiosa, ma è questione di gusti. Ecco, per me la sigla peggiore nella storia delle serie tv per una serie tra le migliori nella storia delle serie tv. 
So che molti di voi l'avranno già vista, ma se non è così, fatevi un regalo. La trovate su Prime. 
Ah, considerate che una serie come Breaking Bad non sarebbe mai potuta esistere senza The Shield e che quest'ultima fa sembrare la prima come un cartone animato per bambini. 
C'è sessismo, specismo, ma anche sprazzi di umanità ed empatia come ad esempio non si vedono in tante serie patinate e apparentemente più politically correct. Bianchi, neri, ispanici, asiatici, donne, uomini sono solo attori che si contendono il potere a prescindere da etnia o sesso di appartenenza e per questo alcuni dialoghi brillano e risaltano maggiormente, proprio perché non risultano artefatti e frutto di una falsa solidarietà ed empatia, ma risuonano come autentica pietà e compassione, esempio quando Lem difende i galli da combattimento dicendo che sono creature innocenti, ma anche quando, all'opposto, il buon Wagenbach, uccide un gatto solo per cercare di capire quello che provano i serial killer. In una serie patinata e politically correct questa è un'azione che mai si sarebbe fatta mettere in scena da un personaggio tutto sommato positivo e questa è per l'appunto la cifra semantica dell'intera serie. 
Ultima cosa: da vedere assolutamente in lingua originale perché è multiculturale e quindi multilinguistica. Bellissimo anche il modo in cui Vic e gli altri fanno propri alcune espressioni e termini gergali, ma mai in modo colonialista, bensì di mimesi totale con i vari mondi sociali con cui entrano in contatto. 
Potrei parlarne per giorni, ma chiudo qui, sperando di avervi incuriosito abbastanza.

P.S.: l'aspetto meraviglioso di questa serie è che, sebbene i vari protagonisti sembrino, come detto, mossi da un destino più grande di loro, non risultano mai essere al pari di tessere intercambiabili, ma ognuno ha un proprio carattere unico e complesso e quindi risultano vivi, più vivi e realistici che mai, al punto che, come detto all'inizio, a serie terminata si ha come l'impressione che continuino a esistere nella realtà e vien quasi voglia di prendere l'aereo a andare a scovare il distretto di Farmington, ovunque si trovi ( non esiste, in realtà); una chicca: l'entrata principale del distretto dall'esterno si vede solo una volta, quando Vic ne esce ormai senza distintivo, quindi come elemento che finalmente può osservare al di fuori di sé, sebbene non smetta mai di indossare i panni del poliziotto che, per quanto con metodi discutibili, ha come obiettivo ultimissimo, perso tra gli altri legati alla propria sopravvivenza, quello di ridurre il crimine - non eliminare, impossibile perché congenito all'umanità e a un sistema corrotti - e questo lo si capisce benissimo nella scena conclusiva, per quanto aperta.

martedì 26 marzo 2024

Buon pane, buon vino e cattiva gente (Marco Saya Edizioni)



 Un breve estratto.

"Per raggiungere la palestra comunale bisogna arrivare al bar dello sport e poi prendere la salita sulla destra dove c’è il giornalaio e la macelleria, oppure il vicoletto più stretto a sinistra. Entrambi sbucano nella via che da una parte va verso il Duomo e la pineta, dall’altra scende e poi risale e seguendola a destra porta fuori, verso la Cassia. C’è già un bel po’ di movimento, vedo tanti motorini parcheggiati. La partita è già cominciata, i tonfi della palla si sentono da fuori, insieme alle urla, ai fischi e agli incitamenti degli spettatori. Gioca la squadra femminile e molti ci vanno per guardare le ragazze e commentare. Che bel culo, che belle cosce. Quando anche tu avrai un culo così… 

Quella c’ha un culo che parla. Quell’altra c’ha un culo che fa provincia. Alcune si mettono la felpa legata in vita per non farsi guardare il culo. La felpa che poi ogni due per tre devono stringere per fare in modo che rimanga ben avvitata. Tutte energie sprecate, per questo le femmine quando giocano con i maschi perdono sempre. Cercare di essere sexy pure mentre si suda o si fanno le smorfie per la fatica richiede il doppio della concentrazione. E tanto poi alla fine è sempre il culo che ti guardano. O le tette. 

 Gioca anche Claudia e le sue amiche. Entrare nella palestra è impossibile, c’è troppa gente, ma si riesce a vedere qualcosa dalla vetrata esterna. Alla fine non è che mi importi molto. 

Sono arrivati anche Bruno Borg, Billo, Fulvio e il resto della banda. Parcheggiano la vespa e i motorini e poi ci si siedono sopra, non scendono nemmeno. Si vede che anche a loro della partita non importa granché. Più che altro seguono lo sciame: si va dove c’è gente, dove c’è qualcosa da fare, dove c’è la fica. 

 Le ragazze vanno dove ci sono i ragazzi. I ragazzi dove c’è la fica. 

 Quando finisce tutti si spostano in massa, rimane giusto qualcuno ad aspettare che le ragazze si rivestano. Ci fermiamo anche noi, il retro della palestra è un posto tranquillo e possiamo fumarci una sigaretta senza essere viste. 

Ci sediamo sugli scalini della porticina da cui si accede agli spogliatoi. Sentiamo le ragazze all’interno parlare mentre si cambiano, il rumore del phon, i commenti sulla partita. La squadra di Claudia ha perso. Dopo un po’ iniziano a uscire. 

Si lasciano dietro una scia di profumo di shampoo e deodorante fresco che si disperde nell’afa della sera, tra il frinire delle cicale e la polvere del piazzale sterrato sollevata dai motorini che ripartono. I capelli ancora umidi che svolazzano nella notte, le gambe abbronzate e lucide di crema che brillano sotto al lampione, ci salutano, salgono sui motorini parcheggiati e dietro a quelli dei loro fidanzati o amici e se ne vanno. 

 Un po’ le invidio. Invidio questo loro muoversi a loro agio nel mondo. Essere sicure e leggere. Brave ragazze che fanno sport e tornano a casa presto, oppure fanno tardi, ma col fidanzato e allora va bene. Chissà se anche loro a volte si sentono sporche, se provano vergogna. 

Sembra di no perché camminano sempre a testa alta. Come se sapessero sempre qual è la cosa giusta da fare, mentre io mi arrovello su tutto, indecisa se seguire i miei veri desideri, le mie pulsioni o quello che ci si aspetta da me. Mi arrovello persino su questioni immaginate nei sogni a occhi aperti, situazioni che non si realizzeranno mai.  Il mio occhio sinistro è affetto dalla sindrome dell’occhio pigro, cioè lo uso meno dell’altro e quando fisso un punto preciso sembra che abbia un leggero strabismo, come se un occhio non seguisse quello che fa l’altro. Questo rende bene l’idea di scissione che a volte c’è nella mia testa. Una parte vuole fare delle cose, l’altra la blocca o fa l’avvocato del diavolo. Invece le altre ragazze mi sembrano tutte ben centrate, senza pensieri in lotta tra di loro.  “Bisogna andare sempre a testa alta” dice mia madre, che per lei significa non far trasparire nulla delle cose che non vanno bene. Io invece cammino un po’ ingobbita perché mi pesano le tette, dice mia cugina; perché vuoi nasconderle e così stringi le spalle, dice la prof di educazione fisica."

Il libro è ordinabile presso il sito della casa editrice stessa, oppure sugli store online, es. Mondadori, e nelle librerie fisiche. 

Sto lavorando per organizzare delle presentazioni sia a Roma, che a Viterbo.

martedì 12 marzo 2024

Buon pane, buon vino e cattiva gente è arrivato!


 Ed eccolo qua!

Il mio romanzo "Buon pane, buon vino e cattiva gente" è finalmente diventato reale.
Lo potete ordinare su tutti gli store online, in libreria e da domani anche sul sito di Marco Saya Editore, che ringrazio con tutto il cuore per averlo pubblicato.

Ovviamente fatemi sapere se vi è piaciuto.


giovedì 29 febbraio 2024

Buon pane, buon vino e cattiva gente

 



Non so se qui mi leggono persone diverse rispetto a quelle con cui interagisco sui social, quindi non so se ha senso spammare anche qui la notizia, ma nel dubbio...

Ricordo i primi tempi che scrivevo qui e tutti gli incoraggiamenti che spesso ho ricevuto sul provare a scrivere un romanzo, dal momento che era così evidente la mia passione per la scrittura, per i libri, il desiderio di raccontare, condividere, comunicare. 

In realtà ciò che mi ha sempre frenata dal farlo, a parte l'insicurezza, la paura di fallire di fronte a un obiettivo per me significativo per una serie di ragioni, era soprattutto la mancanza di una storia. O meglio, di storie da raccontare in testa ne avevo tante, ne ho tante perché la creatività non mi manca, ma nessuna di queste aveva un'urgenza e io sono una di quelle persone che scrive solo se davvero sente di voler dire qualcosa.

Poi in questi anni, complici alcuni miei percorsi riguardo tematiche di cui ho parlato spesso anche qui nel blog, ho capito che in fondo c'era una storia che chiedeva di essere scritta perché poteva diventa una testimonianza. 

E quindi, vi presento in anteprima la copertina e il retro del mio romanzo che uscirà a breve (vi dirò poi da quando sarà ordinabile in libreria e on line) e vi riporto il testo di accompagnamento che ho scritto ieri su Fb per farvi capire meglio di che si tratta e la sinossi:

Con tanta emozione e un miscuglio di sensazioni difficili da decifrare, sono pronta a condividere con voi l'anteprima della copertina e del retro del mio romanzo che sarà pubblicato a breve da Marco Saya Editore.

È difficile lasciar andare una storia così, personale, intima, fortemente autobiografica, ma ci riesco proprio perché ora so che l'ho trasformata davvero in un romanzo, quindi Vera, la protagonista, me stessa nelle intenzioni, nel momento in cui ha preso vita sul pc è diventata anche immediatamente altro. E questo filtro che è dato dalla narrazione, e dalla finzione che sempre la accompagna, è anche ciò che ora mi consente finalmente di prenderne congedo, seppur con immenso affetto.

Vai Vera, entra nelle case degli altri e racconta la tua storia, a chi vorrà sentirla. Raccontagli di quell'estate e di come poi sei tornata a riprenderti con orgoglio quello che ti era stato sottratto: la dignità.

Questa è la sinossi, poi nei giorni prossimi magari posterò anche qualche estratto: "È l’estate del 1984. In un paesino del Lazio al confine con la Toscana, la quattordicenne Vera sperimenta la libertà insieme alla cugina Clara. La madre assume psicofarmaci come se fossero caramelle, il padre sta fuori con gli amici e rientra all’alba, le due cugine ne approfittano per star fuori fino a tardi. Le ragazze serie però rientrano a casa presto e così intorno a Vera e Clara iniziano a circolare voci, pettegolezzi, diventano oggetto di scherzi sempre più pesanti, fino alla sera in cui mentre in cielo esplodono i fuochi d’artificio accade un fatto cui Vera non riesce nemmeno a dare un nome. “Buon pane, buon vino e cattiva gente” è un romanzo di formazione postuma, sull’ingenuità adolescenziale e sui bravi ragazzi che se ne approfittano. Quando Vera tornerà al paese per due ragioni ben precise dopo decenni sarà finalmente in grado di dare un nome a quanto avvenuto quella notte, pronta non solo a elaborare il suo passato ma anche a lottare per una causa importante, quella della liberazione animale che in qualche modo sente affine a quanto le è capitato."

martedì 6 febbraio 2024

Un tempo non era così e altre amenità che riguardano la cultura patriarcale, e in più una notizia

 Quando si leggono le notizie di molestie e violenza sulle donne (vedasi altro orribile caso della ragazzina di 13 anni stuprata a Catania da un gruppo di sette ragazzi), puntualmente alcun* commentano dicendo che un tempo questi orrendi fatti accadevano meno e che oggi i ragazzi sono peggiorati ecc. 

Non è così. Le violenze e molestie sessuali ci sono sempre state, solo che un tempo, nella stragrande maggioranza dei casi, non venivano nemmeno denunciate per una serie di motivi, il che contribuiva a dare una percezione più limitata del fenomeno.

Provo ad elencarne alcuni: 

Fino al 1996 lo stupro non era considerato reato contro la persona, ma solo offesa al pubblico pudore. Figuriamoci molestie o altri tipi di abusi di natura sessuale.

La mentalità era ancora più maschilista di adesso; se una ragazza veniva stuprata o fatta oggetto di violenza sessuale si pensava che se la fosse andata a cercare, che fosse "merce avariata", che stesse esagerando, che fosse consenziente, che non avesse espresso in maniera abbastanza decisa il suo "no", anche perché molte cose non si sapevano e non interessava saperle: per esempio oggi la psicologia che studia le violenze, e i traumi che ne conseguono, dichiara che quando avvengono fatti simili subentra la reazione chiamata "freezing", cioè la vittima si ammutolisce e si blocca, anche per istinto di sopravvivenza nella paura che oltre all'abuso sessuale possa venire picchiata e uccisa. 

Le famiglie spesso ripudiavano le figlie stuprate o abusate perché c'era il mito della verginità, dell'arrivare illibate al matrimonio. 

Le donne vittime di violenza, in alcuni contesti e situazioni, specialmente in passato, quando c'era meno o zero consapevolezza femminista, non di rado provano un sentimento orrendo: di esserselo in qualche modo meritato, di aver fatto qualcosa che ha incoraggiato gli aguzzini e questo le fa sentire sporche e le dissuade dal denunciare. 

Su questi argomenti, che come sapete mi stanno molto a cuore, ho scritto un romanzo, il mio primo romanzo, che uscirà a breve. 🙂

Ci tengo moltissimo e non solo perché è parecchio autobiografico, ma anche perché si interseca con la tematica antispecista. È una storia di formazione. 

Vi dirò di più nelle prossime settimane, titolo, casa editrice, sinossi, magari vi posto qualche estratto.


venerdì 2 febbraio 2024

Io Capitano

 


E mentre tutti vanno a vedere e scrivono di Povere Creature, io recupero film di qualche mese fa (pure perché qui a Viterbo non ci sono più cinema, fatto che mi rattrista molto, e quindi per vedere i film che mi interessano devo aspettare che escano su qualche piattaforma digitale). 

Io Capitano di Matteo Garrone, candidato all'Oscar 2024, presentato a Venezia lo scorso anno. 

Garrone fa un po' sempre lo stesso film, e lo fa bene, ossia si trova a suo agio nel raccontare delle favole o dei racconti epici e anche Io Capitano non fa eccezione: si tratta di una storia in cui c'è l'eroe, ci sono gli antagonisti feroci, ci sono gli aiutanti, i comprimari che nel corso del viaggio daranno una mano al nostro eroe, c'è il male e il bene e infine l'inevitabile lieto fine. 

L'eroe che si allontana da casa insieme al cugino, una casa dove tutto sommato, a differenza di altre situazioni nel mondo (perché a Garrone non interessa raccontare la realtà, le guerre ecc., ma il viaggio dell'eroe) non stava poi così male, dove aveva affetti, una famiglia amorevole, sicurezza e protezione - raccontata a tinte vivaci, colori accesi, da tenere a mente i bellissimi primi piani in cui Seydou, il nostro eroe, si appoggia alla parete di un bel verde brillante della sua cameretta mentre pensa il suo viaggio e sogna, esattamente come sogna ogni adolescente  - e inizia IL VIAGGIO, chiamato letteralmente così, con l'articolo determinativo a indicare che non si tratta di un viaggio qualsiasi, perché ovviamente non è un viaggio qualsiasi, ma è IL VIAGGIO, simbolico e reale, di formazione e iniziatico. Il viaggio di conoscenza del mondo che l'eroe compie e non per reali necessità (a differenza di quanto avviene nella realtà), ma per pura sete di conoscenza ("Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza", anche se poi Dante posiziona Ulisse all'inferno per aver osato sfidare il limite posto da Dio alla conoscenza, avendo superato le Colonne d'Ercole).

Seydou e il cugino, sebbene messi in guardia dai pericoli e dal rischio di perdere la vita, non hanno la minima idea di quello che li aspetta. 

Non voglio scendere troppo nei particolari, ma il dato rilevante è che Seydou durante il viaggio si spoglia a poco a poco della sua adolescenza e diventa uomo. Come lo diventa? Ovviamente facendo delle scelte a assumendosi delle responsabilità, tra cui la più significativa, quella di intraprendere l'ultimo tratto del suo viaggio superando la prova più grande e più difficile. Non spoilero, ma dal titolo già si capisce. 

Seydou è un eroe perché nel momento in cui decide di partire (non senza aver prima espresso paure e dubbi) porta fino in fondo la sua scelta, non si arrende, non si sposta di un millimetro, affronta e supera ogni momento difficile. Il punto di possibile non ritorno accade a metà, in pieno secondo atto drammaturgico, lì dove nella narrazione classica l'eroe incontra gli ostacoli più duri, viene sottoposto alle sfide più difficili, lì dove si decide il destino dell'eroe e si capisce di che pasta è fatto. 

Le scene nella struttura di detenzione libica in mezzo ai mostri spietati sono le più feroci e violente, anche da un punto di vista psicologico; Seydou è chiamato a lottare tra due poli emotivi opposti: la vigliaccheria e il coraggio, arrendersi o andare avanti. Il mediatore lo stordisce come le sirene con il loro canto, ma lui è irremovibile, non cede. La scena è potente perché comunica il terribile dilemma interiore di Seydou. Altrettanto potente è quella in cui, buttato in mezzo ad altri corpi, attende appoggiato a una parete verdognola scrostata, fatiscente, in questo luogo disperato e violento in mezzo al nulla: la versione infernale della parete verde della sua cameretta, ormai lontana anni luce, irraggiungibile. Il nostro eroe è qui che sperimenta il sentimento più triste, ma anche tra i più belli dell'animo umano: la nostalgia. Il desiderio potente di tornare indietro e insieme la consapevolezza che non sarà possibile. Il desiderio di casa, dell'infanzia, degli affetti perduti. E infatti, come un onironauta, Seydou di notte si alza in volo e torna, torna alla sua casa, al suo paese, dalla sua mamma. 

Qui la disperazione di Seydou si fa tangibile, è probabilmente il momento più duro sotto il profilo psicologico, ma regge, anche aiutato da un uomo che lo prende sotto la sua ala protettiva perché, si intuisce, gli ricorda il figlio sedicenne. 

"Mi hai salvato la vita", gli dice infatti Seydou. 

Il viaggio prosegue tra i mostri, gli orchi, ma anche le fatine buone, gli angeli protettivi, la forza di una solidarietà che è solo favolistica. 

Io Capitano è un film bellissimo, a patto che lo si legga, appunto come, racconto epico.

Un film che si regge esclusivamente sul viaggio dell'eroe che si dibatte tra buoni e cattivi, che affronta e supera mille ostacoli.

Un film che senza la carica, lo sguardo - che passa dall'entusiasmo ingenuo alla disperazione della conoscenza -, la straordinaria interpretazione del giovane attore che interpreta il sedicenne Seydou perderebbe parecchia della sua potenza. Seydou è bello, onesto, buono, empatico, coraggioso - e coraggioso proprio perché non si arrende nonostante la paura - responsabile e soprattutto ha fede, come ogni eroe che si rispetti, nel fato, nel destino, in Allah. La sua fede/fiducia, insieme al desiderio potente, gli permetteranno di compiere il suo destino. 

Se vi aspettate un film sui migranti, sui flussi migratori, sulla complessità e durezza di una realtà sociale, avete sbagliato film. Io Capitano è un film sul VIAGGIO di un eroe al pari di quello di Ulisse nell'Odissea. Un viaggio mitologico, una favola. 

Quindi possiamo tranquillamente respingere le critiche sul fatto che racconti solo una parte della realtà, che è infinitamente e complessivamente più dura e disperata e spesso senza lieto fine dei migranti. Nei barconi si muore, le donne vengono stuprate dagli stessi compagni di viaggio e molti rimangono intrappolati in Libia a fare da schiavi, usati come manovalanza, cosa di cui il governo è perfettamente al corrente. 

Seydou alla fine guida un peschereccio, vecchio e arrugginito, ma funzionante, non un gommone. Seydou impara, si assume una responsabilità immensa, si fa uomo e invita i compagni stanchi a fare altrettanto. Seydou è Ulisse che incoraggia e motiva i compagni. 

C'è poco di realistico in tutto ciò, ma come in ogni racconto epico che si racconti, si attinge ad archetipi viscerali, profondi, dell'umanità di sempre e per questo, nella finzione, Garrone realizza un film potente e indimenticabile. Una moderna Anabasi. Seydou non torna a casa, ma trova la sua casa perché trova e conosce sé stesso e perché non c'è viaggio più importante che possiamo fare di quello dentro di noi. Alla fine è lì che dobbiamo andare, a scoprire chi siamo.